domenica 1 marzo 2009
I MIEI PRIMI 60 ANNI
Da Franco a Giovanna
Con amore
Prefazione
Se pensate che una vera storia d'amore sia quella narrata nei romanzi o vista al cinema, vi ingannate. Leggendo queste pagine si affronta la pura realtà della vita, dalle difficoltà al dolore, dall'amicizia all'amore. Leggendo la storia di Franco e Giovanna ci si prepara ad affrontare la vita di coppia, non di certo facile, ma che riempie il cuore. E ci vuole coraggio, coraggio per affrontare la vita, coraggio per amare. Emozionante, ogni pagina, ogni paragrafo ti immerge nella loro storia e vorresti abbracciarli per trasmettere loro tutto il tuo affetto. Per me è stato un onore leggere e date un ritocco alle bozze di questo diario, e spronare Franco a raccontarci sempre di più. Grazie ad entrambi per aver voluto condividere con i vostri più cari amici la vostra storia, vi voglio bene.
Erica Schiavi e famiglia
Cari Franco e Giovanna,
Grazie innanzitutto per aver condiviso con noi la vostra storia, che Franco ha saputo raccontare in un modo davvero unico.
E' stato molto emozionante ripercorrere la vostra vita, una vita che ha saputo essere dolce e generosa ma anche molto dura e crudele.
Vi ammiriamo davvero tanto, credo siate un raro esempio dal quale tutti dovremmo imparare.
Ci avete insegnato che il coraggio e la forza d'animo fanno superare anche i momenti più difficili.
Ci avete insegnato che avere amici veri può cambiare la vita (e sottolineo "veri", che al giorno d'oggi sono sempre più rari).Ma ci avete soprattutto insegnato che l'Amore vince tutte le avversità, quell'Amore sincero e profondo che dura dal primo giorno e che dopo 30 anni di matrimonio è ancora più forte.
Speriamo che il nostro piccolo Luca impari tanto da voi due, carissimi "Iaia" e "Dadodo” “Anto”.
Fate parte della nostra famiglia e vi vogliamo bene.Stefania, Lorenzo e Luca
Caro Franco e Giovanna,
alla nostra età le emozioni possono essere fatali, bisogna essere preparati per affrontarle.
Raramente abbiamo provato tanta emozione come leggendo il racconto della vostra unione.
Oltre avere un Grande Amico abbiamo scoperto un "poeta", in quelle righe c'é tanto Amore in tutte le sue sfumature.
Carissimi voi due siete un raro esempio di AMORE !!!
Un forte abbraccio e a presto.
Gianni e Angela
Carissimi amici.
Dopo aver letto la vostra storia pensavamo di passarla, sempre che siate d'accordo, ad una coppia di nostri amici che curano il corso fidanzati in parrocchia, perchè secondo noi sarebbe una lettura molto educativa per chi sta per sposarsi.
Manfredo e Laura
Franco,
sei entrato nella mia vita per gioco, ma da te ho imparato molto e ne serberò un ricordo indelebile. Non sono un gran paroliere, ma tutto quello che posso dire è “grazie di esistere”. Un abbraccio.
Vittorio e Angela
***
Mi chiamo Franco Ugolini.
Sono nato il 02/07/1947 a Denore, un piccolo paese in provincia di Ferrara.
Quel giorno, mi hanno raccontato i miei genitori Ugolini Orfeo e Ghedini Silvia, venne un gran temporale, un fulmine colpì il fienile e prese fuoco, ma per fortuna tutto finì bene.
La mia vita cominciò normalmente, con il latte della mamma e poi con le pappine fatte in casa.
Negli anni successivi, nel 1948-49 cambiammo casa: i miei genitori vivevano in famiglia alla "Pussion Granda" (“Possessione grande”, così si chiama la casa dove sono nato), poi ci trasferimmo al "Valon" in una piccola casa brutta e fredda. Ma la cosa importante era che la famiglia di Ugolini Orfeo cominciava a crescere e formarsi.
Nel 1951 io avevo già 4 anni; cambiammo di nuovo casa.
L'Opera Pia Galuppi ci diede una casa più sana, si chiamava "i Panigai", in via Panigalli.
Ci recammo lì; mio padre faceva il pastore e mia madre la casalinga; tenevamo le galline, un maiale, i conigli, ecc
Franco a 7 mesi
Franco in vespa a 2 / 3 anni
Nel novembre del 1952 nacque mio fratello Idalgo: gli fu dato quel nome perché proprio qualche giorno prima morì il nonno, padre di mia madre, che si chiamava così.
La famiglia di Orfeo era completa.
Ora vi racconterà tutto quello che riguarda la mia vita ed i miei ricordi dal periodo vissuto ai Panigalli fino alla primavera del 1962, anno in cui nuovamente cambiammo residenza.
In questa foto sono arrabbiato:
Io e l’agnello
A sei anni si cominciava ad andare a scuola.
Io venivo accompagnato da mia madre, lei in bicicletta ed io con il biciclino; dai Panigalli alla scuola c'erano circa 4 chilometri di strada bianca, cioè con la ghiaia.
Ho dei ricordi un po' vaghi dei primi giorni, quindi andrò avanti e vi racconterò quale fosse il mio rapporto con la scuola, in realtà non molto bello.
La mia famiglia – Primavera 1953
A scuola, in quarta elementare.
Il mio compagno Romano faceva la terza elementare
Non mi piaceva leggere né impegnarmi nei dettati, tanto meno in un tema, figuratevi in un quesito di matematica!
Eh sì, per me la scuola era decisamente un problema.
Comunque fu una bella esperienza, conobbi amici al di fuori del cortile e si andava tutti insieme alla dottrina per prepararci alla Cresima ed alla Comunione. A me naturalmente non piaceva imparare le preghiere, in compenso mi divertivo molto a giocare al pallone nel campo davanti alla Chiesa.
A scuola mi piaceva giocare alla cut (nascondino) e "ai quattro cantoni".
Cominciai anche a conoscere le prime ragazzine e per me, ragazzo di campagna, era una novità molto gradita. Eh sì .. cominciavano i primi batticuori, quando ti piace una ragazza e preferisci stare con lei piuttosto che con un'altra .. ma dentro di me c'era un gran casino, perchè mi piacevano quasi tutte!
Passarono gli anni e, tra la scuola e gli aiuti alla famiglia (per quello che potevo fare alla mia età), arrivai alla fine delle elementari. Ripetei la quinta classe, ma ce la feci comunque ad arrivare alla fine.
Volete sapere cosa combinai all'esame della quinta da ripetente?
Ero molto ben voluto della mia maestra, la Signora Forti, che tutte le mattine mi rincorreva e mi baciava.
Era lei l'insegnante della quinta classe, l'anno che frequentavo per la seconda volta e al termine del quale ci sarebbe stato l’esame.
Lei si accorse che ero in difficoltà con il problema di matematica, così mi passò un biglietto con la soluzione: ebbene sì, copiai tutto in fretta e passai anche il biglietto ad altri miei compagni (non ricordo a chi). Peccato che io riuscii a sbagliare il compito comunque!
Finite le scuole elementari bisognava decidere se continuare la scuola. Dalla famiglia arrivava la fatidica domanda: “se vuoi continuare ti mandiamo, altrimenti vai a lavorare!”. Da parte loro c'era una grande voglia che io continuassi, così ci provai. Cominciai la 1ª classe di “Avviamento Agraria” a Tresigallo; fu un anno molto difficile. Purtroppo la strada da fare per andare a scuola era tanta e altrettanta, se non di più, era la voglia di smettere di studiare.
Terminai comunque l'anno e naturalmente fui bocciato.
A 13 anni cominciai a lavorare da un fabbro del paese, si chiamava Carlo, detto Carlon.
Anche se il lavoro era faticoso, io ero super contento e a 14 anni mi misero in regola come apprendista.
Da quel fabbro imparai tanto, soprattutto a saldare.
Lì si costruivano cancelli e cancellate. Con la forgia (una macchina che serve per arroventare) si sagomava il ferro e lui, Carlo, era bravissimo ad ottenere quello che voleva per abbellire quei cancelli. Con la forgia si arroventavano anche i vomeri (i più giovani si chiederanno: cosa sono i vomeri? Sono quei coltelli che poi imbullonati nell’aratro servono per tagliare il terreno e quindi arare).
Bene, il vomero si arroventava e poi sull’incudine giù mazzate per farlo tagliente, io con una mazza e Carlo con una mazzetta e una apposita tenaglia.
Andava tutto bene quando battevi il punto giusto, ma se sbagliavi la mira e prendevi sull’incudine, la mazza ribalzava. Se non si era svelti a scansarsi erano pacche che ti beccavi in fronte.
Le prime volte quante ne ho prese! Ma poi ho imparato .. che bei tempi, grazie Carlo.
A 13 anni cominciai anche ad andar a ballare, a Sabbioncello San Vittore.
Nella Sala da ballo si entrava a 14 anni, ma ogni tanto mi facevano entrare lo stesso
Eccomi alle prime feste da ballo..
A volte venivano cantanti famosi.
Il primo che riuscii a vedere fu Gianni Morandi.
Eravamo tutti davanti all'entrata della sala e quando lui arrivò fecero entrare solo ragazzi e ragazze oltre i 14 anni perché la sala era strapiena, così io e altri miei amici rimanemmo fuori. Finito lo spettacolo, uscirono e tutti si fecero intorno a Gianni per gli autografi.
Io raggiunsi le mie amiche che erano riuscite ad entrare per farmi raccontare come era andata, quando ad un certo punto lui passò davanti a noi per partire e ritornare a Bologna. Aveva una FIAT 1500 marrone scura, me lo ricordo benissimo perché caricò le mie amiche per dar loro un passaggio verso la strada Rossogna ed io rimasi li come un salame.
Dentro di me promisi che, se un giorno avessi avuto l'occasione di vederlo e parlargli, gli avrei detto che era stato proprio uno str……
A casa gli affari non andavano molto bene e quello che si guadagnava non era sufficiente per tirare avanti.
Avevamo alcuni parenti ed amici nel bolognese, esattamente a Zola Predosa; consigliandoci con loro, prendemmo la drastica decisione di trasferirci lì, dove c'erano fabbriche e molte richieste di operai.
Il pensiero di lasciare gli amici del mio paese e le mie fidanzatine mi faceva stare male, molto male, ma non c'erano altre soluzioni.
Spesso all’imbrunire, nelle sere di cielo sereno, andavo al secondo piano della mia casa di Denore e con il cielo completamente privo di nuvole, scrutavo lontano.. Vedevo la sagoma delle colline di Bologna e mi chiedevo: “chissà come sarà là dove finisce la pianura e inizia la montagna.. “.
(Il destino poi ha voluto che il paese dove saremmo andati ad abitare si trovasse proprio a fine pianura, praticamente vicino ad una strada principale da cui iniziavano le prime salite).
All’epoca io non ne avevo davvero idea, ma mio nonno Piero sì.
Sapete, mio nonno Piero, il padre di mio padre, era nato a Vidiciatico, un paesino dell’appennino tosco-emiliano vicino al Corno alle Scale.
Per cui io al nonno chiedevo sempre: “ Come sono le montagne? ”. Lui rispondeva che era molto faticoso camminarci e che là sulle montagne le galline avevano i freni e i maiali i cingoli.
Io facevo ancora le elementari e mi sforzavo di capire come potessero essere fatti questi animali, poi solo crescendo ho capito che scherzava!
Forse vi state chiedendo cosa portò nonno Piero da Vidiciatico a Denore.. Ebbene, già prima del ‘900 facevano transumanza con le pecore così, quando il nonno si sposò (non so esattamente in che anno), si spostò da Vidiciatico con la sua Argenta, 60 pecore, un cane e un somaro perché dove stavano andando con la transumanza gli avevano concesso una casa e tanta terra da pascolare. Poi lì nacquero i suoi cinque figli e dodici nipoti. Dopo aver trascorso la prima e forse anche la seconda notte di nozze sotto al ponte di Casalecchio, finalmente arrivò a Denore.
Tornando a me:
Nella primavera del 1962 avevo 16 anni, partii e venni ospitato a casa di amici per una nuova avventura di vita.
A Zola Predosa per me era tutto nuovo, tutto da scoprire.
Trovavo molto belle sia le colline bolognesi sia le palazzine nuove con la corrente elettrica, ma c’era una cosa che non capivo: il bagno in casa. Neanche tanto per lavarsi, ma non capivo come si poteva “farla” (..) in casa. Poi naturalmente pian piano mi abituai.
Cominciai a lavorare due giorni dopo il mio arrivo in una fabbrica nuova, bellissima, tutta ordinata.
Lì facevano macchine automatiche per incartare le uova di Pasqua e io fui assunto come saldatore.
Devo sempre ringraziare quello che Carlo mi insegnò perché grazie a lui vinsi molto facilmente una prova contro altri con più esperienza di me. Io però non conoscevo il disegno e dovetti promettere al capo officina che avrei fatto un corso serale per completare le mie conoscenze.
I miei genitori arrivarono a Zola Predosa nell'ottobre del 1962 e ci trasferimmo in un appartamento in affitto; mio padre andò a lavorare in una fabbrica dove facevano tubi di plastica e mia madre in un'altra fabbrica dove creavano giocattoli.
Il lavoro mi piaceva moltissimo; la sera andavo nel bar e lì mi feci molti amici, con i quali andavo al cinema e a ballare.
Organizzavamo delle ballate nei garage, e così feci nuove e gradite conoscenze con altre ragazze.
In poco tempo mi abituai alla nuova vita, però dentro me rimaneva un po’ di nostalgia per la mia terra, meno marcata dei primi tempi ma rimaneva comunque.
Gli anni a Zola, dal 1962 al 1966, furono molto intensi e molto belli.
Andavo a ballare ogni volta che potevo ed era un bel casino gestire tutte le simpatie che si creavano tra me (che ero simpatico e belloccio, modestamente parlando..) e le ragazze che si affezionavano a me.
Comunque tra tutte queste bimbe ancora non c'era quella che mi avrebbe fatto palpitare il cuoricino.
Un giorno verso le 17,30 del 14 o 15 aprile 1966, ero seduto davanti al negozio del barbiere mio amico Gaetano. A guardare chi o che cosa? Le ragazze che andavano a casa dal lavoro. Era una mania, ebbene sì, io stavo bene solo con loro.
Insomma, per farla breve, in mezzo alla strada davanti alla fabbrica di Maccaferri c'era un camion fermo; nel frattempo stavano arrivando le solite ragazze che lavoravano in un maglificio ed io le conoscevo tutte.
Si misero in fila per sorpassare il camion e una di queste si staccò dal gruppo in volata, portandosi davanti a tutte e sorpassando il bestione che ingombrava la strada.
Mi venne come un sussulto e mi chiesi chi fosse quella ragazza che io non conoscevo.
Incominciai a pensare che era in bicicletta, che aveva la borsa per il pranzo, quindi non doveva abitare molto lontano da lì. Così cominciai ad indagare.
Fortuna volle che pochi giorni dopo, il 18 aprile 1966, più o meno ore 18, la rividi intorno ad una giostra che era nel paese, per una festa. Era con tutte le altre ragazze che io conoscevo benissimo, così mi fermai e me la feci presentare.
Sapete quale era il suo nome? Giovanna ..
Giovanna, Anna e nonna Maria 1952
Giovanna a scuola – terza elementare
Famiglia di Giovanna - Comunione di Maria
Le chiesi subito di fare un giro in giostra, ma lei mi disse di no; il mio istinto però mi diceva di insistere, anche perché dentro di me sentivo qualcosa che non avevo mai provato prima d’allora..
Dopo un po' di insistenze Giovanna acconsentì e facemmo questo giro in giostra; parlammo e ci promettemmo altri incontri. E da quel giorno non ci siamo più lasciati.
Ora comincio a raccontare la nostra storia, una bella storia, un amore di coppia che lei ha fatto diventare unico e sicuramente da raccontare.
Mo' ci provo.
Giovanna è nata a Monte San Pietro, in provincia di Bologna, il 02 novembre 1949 e i suoi genitori, Calcinelli Aristide e Preci Ersilia, ci raccontano che quel giorno nevicò.
La famiglia poi si compose della nascita di Anna, Giorgio e Mariateresa.
Da quel 18 aprile 1966 ci vedemmo tutti i giorni.
Giovanna, lavorava in un fabbrica di maglieria intima. Io, dopo la fabbrica delle macchine per incartare le uova di Pasqua, lavorai in un posto dove costruivano aratri ed infine in una fabbrica dove facevano tricicli per bambini.
Più avanti capirete perché ho scritto infine.
Ebbene tutti i giorni, dopo il pranzo, ci vedevamo dietro una cabina dell'Enel; stavamo lì una mezzoretta, poi tornavamo a lavorare e di sera ci si aspettava dopo il lavoro, così potevo accompagnarla quasi fino a a casa.
La domenica ci davamo appuntamento all'Acqua Solferina, che era vicino a casa sua.
Noi, nell’estate 1966
Noi, a Tolè Agosto 1966
Giovanna, all’acqua solferina estate 1966
Così, giorno dopo giorno, arrivò l'estate.
Continuavamo a vederci, sempre come ho raccontato precedentemente, “però” con un accordo, siccome lei non aveva il permesso per venire a ballare il venerdì sera a Ponte Ronca mentre io invece potevo andare.. Eh sì, c'era un “però”: io dovevo finirla con tutte le mie attività da playboy, non appena ci fossimo fidanzati in casa (così si diceva a quei tempi).
Sicuramente lei ci stava male, ma d’altra parte io non potevo lasciare la mia compagnia di amici, mi avrebbero preso in giro a più non posso.
Comunque credetemi, ero ben controllato dalle sue amiche : nella balera, ero guardato a vista!
Venne agosto. Io avevo 19 anni, compiuti il 2 luglio 1966, lei ne avrebbe compiuti 18 il 2 novembre.
Nei primi giorni di agosto del 1966, Giovanna e sua sorella Anna andarono in ferie a Tolè, in montagna. Naturalmente anch'io ero in ferie e passai quasi tutti i giorni con loro; fu un'estate bellissima, indimenticabile, sempre insieme con Giovanna a fare grandi passeggiate nei boschi e di sera andando a spasso per il paese.
Ogni tanto tornavo a casa, andavo al bar e raccontavo agli amici la mia felicità di quel periodo.
L'ultimo sabato sera di permanenza a Tolè due amici decisero di venirmi a trovare là, dove ero in vacanza, ma non ci incontrammo e al loro ritorno ebbero un incidente.
Uno morì all'istante e l'altro alcuni giorni dopo, all'ospedale.
Erano giovanissimi, uno aveva 17 anni e l'altro 20.
Pur non volendo paragonare il mio al dolore delle loro famiglie, anch'io mi sentii uno straccio; trascorrevamo tutte le sere insieme, tutto il nostro tempo libero.
Ancora oggi, dopo 40 anni dalla tragedia, mi sento un po' responsabile, dicendomi che se non fossero venuti a cercarmi, forse...
Dopo quella tragedia, finirono le ferie e tornammo tutti al lavoro con un gran dolore dentro al cuore e sicuramente, nelle serate al bar, si sentiva la mancanza della simpatia e dell'allegria dei ragazzi scomparsi. Io ho voluto loro molto bene allora ed ancora oggi molto spesso li ricordo.
Il 28 agosto 1966 io e Giovanna decidemmo di fidanzarci ufficialmente.
Mi presentai quella domenica pomeriggio a casa di Giovanna e lei mi presentò mamma e papà. Aristide, il papà, con le lacrime agli occhi, mi diede la mano e disse solamente: “ io vado nella stalla “ e sparì.
Ersilia, la madre, mi allungò la mano e partì con la paternale: bisognava andare dalla ragazza tutte le sere comandate, cioè il martedì, il giovedì, il sabato e la domenica pomeriggio e sera ma alle 23 bisognava andare a letto.
A questo proposito avrei un episodio da raccontare: la sera in cui misero l'ora legale, io ero tutto contento perchè pensavo che quella sera sarei rimasto un'ora in più, infatti quando scattarono le 23.00 dell'ora solare e Giovanna mi disse che bisognava andare a letto, io le risposi che potevamo aspettare perchè c'era l'ora legale; ma alle 23.30, sempre dell'ora solare, Ersilia, dal piano di sopra, chiese a Giovanna: “Che ore sono?“. Così capimmo che le regole andavano comunque -e giustamente- rispettate.
In quella casa venni subito accettato anche dalla nonna, dai fratelli e dai due zii che vivevano con loro.
Pensate che la nonna quando pioveva prendeva la mia bicicletta e la portava sotto il portico; poi Giovanna un giorno mi raccontò che la nonna le chiese perché non mi comprava lei un motorino, se io non avevo i soldi.
Penso proprio che mi avesse accettato molto bene.
Portai anch'io Giovanna a farle conoscere la mia famiglia; ci fu la solita presentazione e furono tutti contenti perché lei dava la sensazione di essere una brava ragazza.
Siccome era piuttosto ”magrina”, mio fratello mi disse che era bellina, però un po’ troppo smilza (magra).
Vi ricordate la promessa che le avevo fatto? Che non appena mi fossi fidanzato, avrei dovuto smettere di andare a ballare il venerdì sera; ebbene, trasgredii subito alla parola data!
Naturalmente le spie le spifferarono subito l'accaduto ed io mi giustificai dicendole che non potevo lasciare tutto e tutti, senza salutarli.
Il giorno dopo era sabato e la mattina si lavorava; come al solito io ero puntuale davanti alla fabbrica dove lavorava Giovanna, per accompagnarla a casa.
Ma quando uscì, scese il gelo: lei mi passò davanti senza guardarmi, scura in volto; anche sua sorella Anna fece lo stesso.
In me si scatenò la paura, l'avevo fatta grossa! Mi avvicinai, cercando di giustificarmi, ma trovai un muro. Lei mi disse solamente che quella sera potevo anche stare a casa mia. Vi lascio immaginare come mi sentii io quel sabato pomeriggio, il tempo non passava mai e avevo davvero paura.
Quella sera dovevo farle il primo regalo, la medaglietta dell'amore e con quello che era successo forse lei avrebbe potuto pensare che l'avessi presa appositamente per farmi perdonare. La sera mi presentai da lei. Era con sua sorella in sala, io le dissi “ciao” ed andai vicino alla mia amata fidanzata dandole un bacino; lei lo accettò ma non lo ricambiò. Mi ero un po' rasserenato, cercando di spiegarle che in me non c'era davvero nessuna voglia di tradire, ma ero talmente abituato ad andare a ballare il venerdì sera che non ero riuscito a stare a casa. Poi tutto si chiarì e finì in un profondo bacio, uno di quelli che solo i fidanzati di quella età sanno darsi. Le diedi la medaglia dell'amore e lei l'accettò, ma mi disse la frase che mi aspettavo: “L'hai presa per farti perdonare.. “.
Non vi racconterò il resto, perché tutto finì bene, l'amore trionfa sempre!
Finì anche il mese di settembre e cominciò ottobre; io iniziai a pensare al compleanno di Giovanna, il 2 novembre. La mia idea era di regalarle l'anello di fidanzamento, così ne parlai in casa ai miei genitori e loro naturalmente furono d'accordo. Mia madre si precipitò a vedere vari modelli da alcuni orefici della zona, con l’accordo di passare più avanti.
Intanto si continuava a lavorare come sempre in fabbrica, anche il sabato mattina, mentre si stava a casa al pomeriggio. In quel periodo mi arrivò la cartolina per fare i "tre giorni" per il servizio militare, con la prospettiva di partire l'anno successivo nella marina. Tutti noi non abbiamo dato molto peso alla cosa, io e Giovanna eravamo preparati per questo sacrificio, anche se il destino stava per tirarci un brutto scherzo.
Eravamo felici, anzi di più; dalla vita non chiedevamo più niente, se non stare insieme e fare le cose più semplici: prima il servizio militare e poi sposarci, naturalmente una casa nostra eccetera, eccetera.
Presi appuntamento con l'orefice per andare a vedere ancora una volta l'anello e per versare un acconto il sabato 22 ottobre, sempre del 1966, per le ore 17,15 circa.
Quel sabato al lavoro chiesero a me ed ad altri ragazzi di andare a fare un po' di manutenzione nella sala dei compressori. Io in particolare dovevo andarci perché ero quello con più esperienza con la saldatrice, quindi il direttore della fabbrica voleva solo me per saldare i tubi che trasportavano aria nelle catene di montaggio. Diceva :
-“i tubi che salda Franco, oltre a non avere perdite, non si rompono più, ed è una sicurezza! Voi sapientoni andate bene giusto a saldare i tricicli ”, disse rivolgendosi al mio capo-reparto ed ai miei colleghi.
Pensate che io avevo iniziato a saldare all'età di 13 anni ed ho sempre lavorato in fabbriche importanti; i saldatori dovevano essere professionisti finiti.
Quando cominciai alla FIMA (Fabbrica Italiana Macchine Automatiche), il capo officina mi chiese se ero interessato ad andare a lavorare in Arabia Saudita presso l'ENI, sempre come saldatore.
Io gli dissi subito di no perché avevo già sofferto abbastanza per il distacco dalla mia terra natia ed ormai mi ero abituato a quella attuale; il capo reparto mi fulminò con una occhiata e gli divenni un po' antipatico sul lavoro, ma quando ci trovavamo al bar, fuoir dal lavoro, non c'erano problemi.
Quel 22 ottobre era un sabato mattina di lavoro normale, andammo a pranzo e dopo il pranzo ci fermammo in un prato, di fronte alla fabbrica, per tirare due calci al pallone in attesa che suonasse la prima sirena, cioè 5 minuti prima dell’ultima sirena che segnava l’inizio del lavoro.
La prima suonò ed un mio collega di lavoro diede un calcio al pallone che lo scaraventò oltre un muro; io ero il più vicino al cancello così il mio collega mi disse “Dai, vai a prendere il pallone, tu che sei il più vicino!“. Io andai, ma davanti al cancello mi fermai: dentro quella fabbrica, oltre quel cancello, c'erano due cani lupo ed io ho sempre avuto paura dei cani altrui, così mi fermai e chiamai il collega, supplicandolo, naturalmente in tono ironico “ Vai tu! Se i cani mi mangiano non posso andare dall'orefice. E poi stasera voglio andare dalla mia morosa! “. Lui acconsentì, prendendomi in giro “ Oh, questo qua vede solo lei, vive per lei, parla sempre di lei! Sembra che la fidanzata c'è l'abbia solo lui! “ e si rideva tutti.
Intanto lui entrò oltre quel cancello e mi buttò il pallone. Ricordo che mi chinai per raccogliere quel pallone nel cunicolo, sul ciglio della strada.
Poi un’auto ha sbandato proprio lì dove ero io, mi diede una botta sul fianco destro .. e per me fu il buio. Non vedevo più il sole, si era spento tutto. Sentivo la gente urlare, alcuni dicevano “portiamolo via” , altri “no! no! hanno già chiamato l'ambulanza!”.
L'ambulanza arrivò. Ricordo la sirena, poi più niente.
All'ospedale Maggiore vedevo vagamente delle figure che continuamente mi chiedevano “ Quanti anni hai? Come ti chiami? Dove abiti?” e ricordo che tutte queste domande mi stancavano.
Ancora ricordo la figura di mio padre che mi guardava; io gli chiesi “ Ma che cosa mi è venuto addosso?”. Poi più niente.
Mi risvegliai che ero all'ospedale Rizzoli; intorno a me c’erano alcuni medici.
Io sentivo tutto quello che dicevano: alcuni “ Lasciamolo stare, tanto non c'è la farà”
Altri due medici, un uomo e una donna, non erano d'accordo e proposero la loro soluzione per salvare quello che si poteva salvare.
Durante quei momenti pochi momenti di scarsa lucidità (si fa per dire..), capii che mi ero rotto il cosiddetto osso del collo, esattamente la quinta vertebra cervicale, con la compressione del midollo spinale.
La cura che proponevano i due medici era di inserire due ganci nel mio cranio e poi con una carrucola attaccare dei pesi, messi poco per volta, per tirarmi il collo e far rientrare la vertebra il più possibile nella sua sede: questo era più o meno il loro intento.
Infatti, il terzo giorno dopo l'incidente, mi fecero questa operazione dolorosissima: mi bucarono ai lati del cranio (ho ancora i buchi) per inserirmi quei ganci.
Fecero l'operazione mentre io ero sveglio; ero molto sedato, ma pur sempre sveglio e cosciente.
Ricordo che feci molta attenzione a quello che mi facevano: un infermiere disse ad un altro “ Metto i pesi in fondo al lettino, dai piedi“. Terminata l'operazione gli infermieri però non trovavano più i pesi, si erano dimenticati dove li avevano messi! Io gli dissi: “ Sono in fondo, dai miei piedi“. I dottori rimasero stupiti per la mia attenzione.
Mi portarono in reparto e incominciò il mio calvario. I miei genitori, con l'aiuto dei parenti, mi badavano giorno e notte; bisognava tenere sotto controllo, cioè guardare continuamente, i pesi perché si sarebbero anche potuti staccare!
A turni cominciò quel tour de force.
Io iniziavo a rinvenire e cercavo di capire cosa comportava quella frattura alla quinta vertebra cervicale: ero in massima confusione.
Naturalmente Giovanna aveva saputo dell'accaduto ed anche a lei era caduto il mondo addosso: il suo Franco all'ospedale e nei primi tre giorni in semi-coma! Non si perse d'animo e cominciò subito ad organizzarsi per venirmi a trovare ogni volta che poteva. Non ho ricordi delle prime volte, però ho ben impresso nella mente, credo dopo 5 o 6 giorni, che aprendo gli occhi mi trovai davanti proprio lei, Giovanna.
Provai una emozione che non so descrivere, sicuramente mi diede forza e una gran fiducia. Dai suoi sguardi capivo che lei era con me, da quegli occhi sprizzava tutto, anzi di più, l'amore che provava per me.
Di quei primi giorni ho ricordi molto confusi, quindi passiamo più avanti.
Circa 15 giorni dopo l'incidente, ero già cosciente; dovevo rimanere a letto steso con la pancia in alto in trazione e quella trazione mi faceva molto male, giorno e notte.
Un pomeriggio dalla parte sinistra sentii più male del solito così avvertii mio zio Ilario, il fratello di mio padre. Avevo il presentimento che qualcosa si stesse staccando, infatti all'improvviso sentii una terribile fitta, emisi un urlo a squarciagola e vidi mio zio tuffarsi per prendere i pesi al volo. Evitai così la rottura dell'osso. Arrivano i medici e mi portano in sala operatoria: un consulto veloce ed i chirurghi decisero di rimettere il gancio nella sua sede. Cercando di tranquillizzarmi, mi diedero uno spray per togliermi il dolore così, durante l'intervento, non sentii molto male.
Mi riportano in reparto e appena finì l'anestetico provai un dolore atroce, sia fisico che morale. Nonostante le mie lamentele, mi dicevano che dovevo avere pazienza, ma alla sera, intorno alle 22.00, non ce la facevo proprio più.. mi sentivo come svenire da un momento all'altro. C'era il mio babbo e chiamò l'infermiera, la quale chiamò il medico di turno. Arrivò e mi disse che non poteva farci niente, quindi disse all'infermiera di farmi una puntura di antidolorifico e ripeterla quando il dolore si fosse ripresentato.
Cercai di calmarmi e il pensiero andò alla mia fidanzata; pensavo quanto poteva essere grande anche il suo dolore.
Mi emozionavo anche solo a pensarla e mi sentii meglio, mi addormentai e riuscii a riposarmi, ma nella mattina il dolore ricominciò e mi fecero un'altra puntura.
Durante la mattinata passarono i medici, mi visitarono e decisero di togliermi tutto perché quei ganci erano troppo pericolosi. Per cui mi portarono di nuovo in sala operatoria, dove mi tolsero tutta la ferraglia e mi misero in trazione con una fascia che mi prendeva da sotto il mento.
Rimasi con quella fascia che mi tirava il collo per circa venti giorni, rimanendo sempre solamente a pancia in alto; muovevo solo appena le braccia, dovendo tenere tutto il resto del corpo immobile, praticamente paralizzato, una parola che non volevo sentire ma che non se ne andava dalla mia testa. Ancora un altro problema: un giorno i medici si accorsero che avevo la zona dell'osso sacro che si stava rompendo; purtroppo fu davvero così ed all'improvviso comparve anche una piaga da decubito.
In quei giorni ricevetti molte visite: amici di Zola, amici del paese natio, parenti, insomma una marea di gente, tanta gente, era talmente tanta che la capo-sala chiese a mio padre di farli salire un po' alla volta.
A dicembre, prima di Natale, mi tolsero quei fastidiosi tiranti e mi ingessarono, dalla testa fino all'ombelico; dovevo tenere quella ingessatura per tre mesi.
Mi mandarono a casa, ma con l'ordine di tornare in marzo. A casa avevano preparato la stanza dove dormivamo io e mio fratello, adattandola quanto più si poteva alla mia nuova situazione.
Una volta tornato a casa, eravamo tutti abbastanza contenti, non c'era il problema di andare avanti e indietro dall’ospedale così anch'io mi sentivo un po’ più rilassato; i miei familiari e alcuni parenti si organizzarono per gestirmi in quei primi novanta giorni.
Il medico di base diede dei consigli ai miei genitori, ma quando vide la piaga fece una smorfia, come per dire “questo con sta piaga muore di cancrena”, ma non lo disse anche se poi confessò di averlo pensato.
Un mio zio, marito di una sorella di mia madre, era rimasto ferito in guerra; una pallottola gli aveva disfatto un tallone ed i medici gli avevano prospettato di tagliare il piede. Lui rifiutò, se lo medicò da solo e guarì. Camminava zoppo, ma almeno aveva ancora il suo piede. Questo zio si prese cura della mia ferita, medicandomi ogni due sere con le indicazioni che dava il medico.
Non è bello raccontarvelo, ma attraverso quella piaga si vedevano tre vertebre dell'osso sacro: una devastazione!
Intanto i giorni passavano, io ero rassicurato nelle cure del corpo dai miei genitori e dai parenti e, cosa molto importante, nella cura dell'anima dalla mia Giovanna, che lavorava a circa quattro chilometri da casa mia, ma tutti i giorni, e dico tutti i giorni, dopo il pranzo veniva a casa mia e stava con me una mezz'oretta, poi tornava di sera, mentre andava a casa, per un'altra ora.
Al sabato veniva un paio di ore nel pomeriggio e la domenica rimaneva quasi tutto il pomeriggio. Questo, per tutti i tre mesi che rimasi a casa.
Vi lascio immaginare il sacrificio che poteva fare, comunque entrambi stavamo bene quando eravamo insieme. Nei momenti della giornata in cui rimanevo solo con i miei pensieri, pur non essendo sicuro che non avrei mai più camminato, un'angoscia mi prendeva: “ se non camminerò più, quale sarà la mia vita? Cosa farà la mia fidanzata? ” e piangevo, anche se non mi facevo mai vedere dagli altri.
Anzi, con gli altri mi facevo vedere forte ed anche allegro.
Tra le visite fatte da parenti ed amici, ogni dieci o quindici giorni, mi facevano visita anche i genitori di Giovanna e naturalmente si informavano sullo stato della mia salute; la mamma di Giovanna si informava soprattutto della mia piaga.
Lei lavorava presso una famiglia dove c'era una persona ferma a letto e di queste piaghe ne aveva più di una; si era accorta che quando veniva l'infermiera per medicarlo, gli dava un olio e di quell’olio sentiva dire dalla famiglia dell'infermo che era come una cura miracolosa. Allora ne parlò con la sua padrona, poi con i miei genitori naturalmente: se quella cura poteva farmi bene, bisognava provarla. Era un olio che veniva dalla Russia e in Italia non si poteva importare legalmente, ma una farmacia di Bologna avrebbe potuto procurarcelo, e così facemmo. Un flaconcino di quella roba costava otto mila lire.
Cominciammo le medicazioni senza parlarne con il medico di base, anche perché prima di comprare quel medicamento gliene avevamo parlato e lui aveva detto che non serviva a niente. Invece funzionava! Eccome se funzionava! Di settimana in settimana si vedeva quella ferita rimarginarsi e in quei giorni, prima di togliermi il gesso, eravamo arrivati a vedere la piaga migliorare verso la guarigione
I tre mesi passarono e a fine marzo tornai al Rizzoli; mi tolsero il gesso e fu una liberazione, perché quel gesso mi provocava pruriti fastidiosissimi.
Tre mesi, costretto in quella “imbalsamatura”, furono molti lunghi; tolsero del tutto il gesso che reggeva il collo, ma trovarono un'altra ferita, piccola ma c'era.
Dovetti così iniziare a fare terapie, per cercare di recuperare tutto quello che si poteva dal mio fisico.La terapia consisteva nel mettermi sopra un tavolo, legato al petto ed alle ginocchia, mentre pian piano i medici mi mettevano in posizione verticale; ricordo che le prime volte avevo grandi giramenti di testa, ma con il passare dei giorni cominciai ad abituarmi alla posizione eretta. Con l'esercizio quotidiano, iniziai a rimanere seduto sulla carrozzina per qualche ora ogni giorno ed esercitandomi un po' tutti i giorni, arrivai a star seduto tutta la giornata. Arrivammo alla metà di aprile e praticamente il collo si era saldato, riuscivo a stare seduto, quindi il compito del Rizzoli era esaurito e mi mandarono a casa.
La mossa successiva era quella di andare in un centro di riabilitazione, ma non sapevamo dove andare e soprattutto chi avrebbe pagato la degenza.
Nel frattempo, a casa, guarii dalla piaga grazie al quel famoso olio; ma nonostante questo, continuavo ad avere dei periodi con la febbre alta, dovuta alle infezioni urinarie.
Feci le visite del caso e l'unica soluzione pareva essere quella di pulire la vescica con un intervento fatto poi nell'autunno del 1967. Ritornai di nuovo a casa, ma i medici mi dissero che sarei dovuto ritornare nella primavera del '68 per un'ulteriore operazione al rene destro; c'era infatti un calcolo e bisognava rimuoverlo.
Nell'attesa della primavera, per essere sottoposto a quel intervento, a casa trascorrevo il mio tempo facendo della ginnastica con l'aiuto di mia madre e mio padre, leggevo libri che riguardavano la seconda guerra mondiale, ma il tempo più bello era quando arrivava la mia Giovanna. Come solito quando ero a casa veniva tutti i giorni feriali, dopo il pranzo durante la sua pausa, poi alla sera quando tornava dal lavoro. Al sabato arrivava verso sera mentre alla domenica pomeriggio veniva sempre, sia con la pioggia che con il sole cocente e a volte anche con la neve.
Io e Giovanna non volevamo pensare ad un futuro diverso da quello a cui avevamo pensato prima della disgrazia, ma quando rimanevo nella stanza da solo, seduto su una poltroncina e riflettevo sul mio futuro, lì solo, mi guardavo e provavo a muovermi, ma non succedeva niente, le mie gambe rimanevano ferme. Allora i miei pensieri, molto spesso, andavano a ricordare i giorni dell'infanzia, quando correvo nei prati con i cani, quando andavo alla domenica mattina a spargere la paglia nell'ovile e mentre lo facevo ricordo che avevo una radiolina dalla quale ascoltavo "fatti mandare dalla mamma a prendere il latte" o "andavo a 100 allora per andare dalla bimba mia". Altri ricordi erano di quando portavo la ricotta dalla Nene, la bottegaia del paese e per andarci mio padre a volte mi dava la moto, una Gilera 150 alla quale legavo il sacchetto al portapacchi, ma ogni tanto arrivavo alla bottega e mi accorgevo che la ricotta non c'era più, l'avevo persa e mi scappava da ridere!
Ma poi mi riguardavo e tornavo alla realtà e mi facevo dei gran pianti. Tra me e me mi facevo coraggio, pensavo che non dovevo mollare; ero coraggioso e forte e quando ero in compagnia dei miei amici o parenti ero io che facevo coraggio agli altri e li mettevo a proprio agio.
Primavera 1968. Dall'ospedale mi chiamarono per l'operazione al rene destro; non fu nulla di grave, solo una pulizia, ma pur sempre un'operazione.
Tornai a casa per una giusta convalescenza e cominciai di nuovo la ginnastica: mi mettevano in piedi con degli appositi cartoni. I terapisti erano mio padre, mio zio Ilario e mio zio Toni, quest'ultimo sempre molto presente tutte le volte che avevo bisogno (ma comunque lui era così, sempre pronto per aiutare chi era in difficoltà).
Cercando in qualche modo di rimanere in piedi, ci accorgemmo che non appoggiavo bene i talloni per terra. Facemmo presente il problema all'ortopedico, il quale ci fece notare che essendo rimasto molto fermo a letto, avevo impostato i piedi equini; bisognava quindi allungare il tendine di Achille e avrei dovuto sottopormi ad un'altra operazione ad entrambi i piedi.
Nel frattempo avevamo trovato un centro specializzato per la rieducazione del fisico idoneo al mio caso; facemmo tutti i documenti del caso e nell'autunno del '68 partii per Selva Piana del Circeo, in provincia di Latina.
Mi accompagnarono mio cugino Remo, figlio di zio Toni, lo stesso zio Toni, mia madre e mio padre.
Toni aveva una sorella a Sabaudia e così fu più facile per noi "campagnoli", che non eravamo mai stati lontani una notte dalle nostre case, avere un appoggio vicino all'ospedale. I miei accompagnatori dormirono dalla sorella di zio Toni, per poi tornare a casa il giorno dopo, non prima però che i miei genitori avessero visto la mia sistemazione in ospedale: dove dormivo, dove si mangiava, ecc per rassicurarsi che io potessi sentirmi a mio agio. Ad una prima impressione, il posto mi piaceva moltissimo, quindi mi ci ambientai molto bene.
I miei genitori mi lasciarono un po' di soldi, avevano fatto tutto quello che potevano e ricordo che mio padre mi guardò e mi disse in dialetto ferrarese “ sta mò ben, ma sa tat trovi mal, scrivas, cat gnen a tor subit “ ( stammi bene, ma se ti trovi male scrivici e ti veniamo a prendere subito). Questo mi emozionò un po'; finite tutte le raccomandazioni loro partirono ed io rimasi là, da solo.
Da quando eravamo partiti, il mio pensiero era stato in ogni momento, senza mai abbandonarmi, rivolto alla mia fidanzata; il pensiero di rimanere sei mesi senza vederla mi faceva stare male, poi ragionavo, e capivo che ero là per migliorare le mie condizioni. Prima della partenza avevamo parlato della situazione; ci saremmo accontentati se fossi riuscito ad alzarmi dal letto ed essere autosufficiente, ma comunque dentro di noi, tacitamente, sapevamo già come sarebbe andata a finire. Con il pensiero ritornavo alla realtà, mi asciugavo le lacrime e riprendevo i miei esercizi.
Tutti i giorni, dopo la ginnastica del pomeriggio, gli infermieri mi portavano in camera, al tavolino o nella sala mensa per scrivere una lettera o una cartolina; quei momenti erano bellissimi e intensi, mi sembrava di viverli con la mia amata, avevo veramente una bella cotta, per fortuna che c'era lei che mi dava la forza e la voglia di continuare. Non ho mai pensato per un solo attimo che tra noi due potesse finire.
Rimasi in quell’ospedale cinque mesi; era un bel centro, molto attrezzato, con una palestra grande, una bella piscina ed un parco enorme con alberi secolari. Dalle finestre si vedeva il monte del Circeo, che di profilo sembrava una donna sdraiata e da lì il nome della Maga Circe, poi c'era un bellissimo lago, il lago di Sabaudia. I terapisti erano validissimi ed anche gli infermieri erano molto preparati. In reparto c'erano camere con tre o quattro letti, eravamo tutti ragazzi giovani e tutti con lo stesso problema.
Nel tempo libero, specialmente il sabato e la domenica, grazie a quel tempo mite anche durante l'inverno stavo molto fuori nel parco a fare "parole crociate" e a pensare, sempre pensare; ormai mi ero rassegnato alla situazione, anche se non volevo crederci, ma purtroppo era così.
I medici non mi davano nessuna speranza; mi dicevano di abituarmi alla carrozzina perchè sarebbe stato l'unico modo per muovermi ed ogni volta che me lo dicevano per me erano mazzate che mi spezzavano in due. Oltretutto in quell’inverno del '68 Mino Reitano cantava "dei miei venti anni che me ne faccio", e quando ascoltavo quella canzone pensavo a me, che ne avevo ventuno e mi dicevo “ infatti Franco, che te ne fai? ”.
Ma il destino, fin dal momento successivo all'incidente, mi è sempre stato a favore ed ancora non mi ero accorto del mio Angelo custode.
Durante le feste di Natale vennero a trovarmi Giovanna ed i miei genitori; lo sapevo, me l'aveva scritto Giovanna e li aspettavo con ansia.
Appena arrivati capii subito per chi era quell'ansia: era per lei, il mio Angelo Custode. Da quel momento vidi solo lei, passammo due giorni sempre insieme e quando dovettero ripartire sarei voluto andare anch'io, ma quella carrozzina me lo impediva. Loro tornarono a casa ed io dovetti tornare a fare ginnastica, con un po' di svogliatezza perché ormai avevo capito che era inutile, ma appena terminati i cinque mesi, poi sarei finalmente tornato a casa.
Tornai a casa alla fine dell'inverno del 1968 e fu una sorpresa scoprire solo in quel momento che anche all'ospedale Sant'Orsola di Bologna c'era un reparto di rieducazione gestito dal Prof. Menarini.
Prendemmo un appuntamento per una visita e nella primavera del 1969 mi ricoverarono per ulteriori terapie.
Secondo il Professore si poteva ottenere ancora qualche risultato; così fu ed infatti due mesi dopo riuscivo a stare in piedi, con un fatica indescrivibile, ma con l'aiuto di un deambulatore stavo in piedi.
Durante questi due mesi, di sabato potevo tornare a casa e rientrare in ospedale la domenica sera; quando non potevo andare a casa, Giovanna veniva a trovarmi in ospedale di domenica e stava con me tutto il pomeriggio. Molte volte veniva anche di giovedì con mio padre, sempre con quel famoso Gilera 150 cc.
Nel reparto non c’erano tanti pazienti, quindi si stava bene; eravamo tutti giovani e di sera si stava insieme in sala mensa, ci raccontavamo le nostre disgrazie e naturalmente ad ognuno sembrava che la propria fosse la peggiore. A me però non piaceva molto stare lì a rimpiangere il passato, così quando c'era Cesare, un infermiere molto simpatico che appoggiava le mie idee, organizzavamo favolose spaghettate, poi tornavamo a letto sicuramente più rilassati. Il giorno successivo, oltre alla ginnastica in palestra, tra di noi ci si organizzava per la successiva spaghettata e si cercava di convincere qualche altro infermiere a chiudere un occhio per i nostri intrighi.
Il ciclo di terapia finì e tornai a casa, in Via Gramsci 2 a Zola Predosa. Trascorrevo il tempo con la solita ginnastica e ne facevo anche di più che in ospedale. Rimanevo sopra ad un materassino di spugna anche quattro ore e cercavo continuamente di fare movimenti che per le altre persone erano semplicissimi, ma per me purtroppo, erano impossibili. Mi guardavo e mi sembrava incredibile non riuscire fare le cose più semplici ed un po' mi demoralizzavo, ma poi arrivava Giovanna ed io, solo a vederla, mi tranquillizzavo.
Estate 1969 in piedi alla finestra, sono appoggiato a un deambulatore
In bici facevo ginnastica 10 km al giorno
Agosto 1969 – a casa dopo la riabilitazione nell’ospedale di Selva Piana del Circeo (Latina)
Rimasi a casa fino alla fine del 1969 e nel settembre di quell'anno si sposarono Paola e Luigi.
Voi direte, chi sono questi due? Allora vi racconterò.
Paola abitava nell'ultima casa del comune di Zola e Giovanna nella prima casa del comune di Crespellano; tra le due case c'era una distanza di circa 300 metri e le due ragazze erano diventate molto amiche. Poi il destino volle che andassero a lavorare nella stessa fabbrica, Paola come impiegata e Giovanna come operaia.
Nel 1965 Paola si fidanzò con Luigi; una sera mentre Luigi accompagnava a casa la sua amata, un camion sulla strada gli passò molto vicino, troppo vicino, così che un gancio della chiusura delle sponde gli fracassò mezzo cranio. Rimase anche lui in coma per 20 giorni, poi in circa due anni di cure si riprese molto bene.
Ancor prima che io e Giovanna ci fidanzassimo, molte volte in primavera andavamo in giro con Paola e Luigi. Paola aveva una 500 bianca, salivamo tutti ed andavamo a spasso, girando però alla larga dalla casa di Giovanna perché sua madre non doveva sapere dei nostri giretti, anche se io ero convinto che lei sapesse già tutto.
Nella primavera del '70 ritornai in ospedale per un altro ciclo di ginnastica; in reparto erano cambiati gli infermieri e Cesare era diventato un terapista. Era cambiata anche la suora responsabile del reparto, ma, mentre con quella di prima non c'era un gran feeling, con la suora nuova che si chiamava suor Rosina ci piacemmo da subito e così lei mi trattava come un suo protetto: mi dava sempre le bistecche più grandi e nell'armadietto dove tenevo un po' di cibo che mi portavano da casa, ci trovavo a sorpresa anche formaggini, marmellate, prosciutto e frutta.
Il giovedì sera in una Cappella dell'ospedale le suore recitavano il Rosario e suor Rosina mi chiedeva spesso di andare con lei; andai più di una volta, ma per arrivare in quella Cappella occorrevano più di 30 minuti e lei spingeva la mia carrozzina sotto a quei tunnel bui e angusti. Quando arrivavamo alla Cappella, c'erano solo suore ed io mi dicevo: “ ma guarda un po' cosa mi tocca fare! ”, ma in realtà ero contento e lo facevo volentieri.
Poi, guardando tutte quelle suore, vi dirò, ce n'erano anche delle belline! La mia suor Rosina avrà avuto dieci anni più di me, ma non era “da buttare” (sono solo semplici riflessioni)! Una sera mi chiamò nel suo ufficio, chiuse la porta, mi guardò con viso allegro e mi disse: “ Ti faccio vedere una cosa, che non ha mai visto nessuno al di fuori di parenti e religiosi! ”. Io le chiesi cosa fosse e lei mi rispose che erano le foto di quando si era sposata! Io rimasi un po' perplesso, le chiesi con chi si era sposata e la risposta fu: “ Ma con Gesù! ”. Allora tirò fuori dal cassetto un album con le foto di tutta la cerimonia e mi spiegò per filo e per segno tutto il percorso del suo sposalizio; me lo raccontava con grande entusiasmo ma io, che non sono mai riuscito a frenare l'ironia che c'è in me, feci proprio una battutaccia dicendole: “ Suora, meno male che Gesù è in paradiso, altrimenti avrebbe un bel da fare con tutte queste mogli!”.
Lei per fortuna mi conosceva benissimo e forse le piacevo proprio per la mia forza di sdrammatizzare, così mi rispose: “ Francooooo! Il nostro matrimonio è diverso da come lo pensi tu! ” ed incominciò a spiegarmi i motivi della sua vocazione verso Cristo. Io l'ascoltavo con interesse perché, indipendentemente da come la pensavo, questa devozione meritava rispetto e vi posso garantire che lei era una donna felice.
Ma all'improvviso si aprì la porta dell'ufficio ed una infermiera informò la suora che era il momento per la distribuzione del pranzo ai degenti; dal momento che io ero entrato nel suo ufficio erano passate due ore, il tempo era proprio volato!
Passammo altri momenti insieme, in cui lei mi faceva fare cose che io non avrei mai fatto se lei non me lo avesse chiesto; per esempio, voleva che andassi a Messa il sabato mattina e pur di farmi andare mi veniva a vestire e io le dicevo: “ Suora, sono nudo!” e lei, che era spiritosa, mi rispondeva “Stai tranquillo, non ho paura di niente! Poi con te sono pronta a tutto!”.
Diceva che ero un bravo ragazzo e lei mi avrebbe aiutato a migliorarmi.
Sapeva della storia tra me e Giovanna; quando parlavo di noi due e specialmente dei sacrifici che faceva la mia fidanzata per venirmi a trovare e stare con me, diceva di avere anche lei una grande ammirazione per Giovanna.
Venni dimesso e dirottato in un altro centro di rieducazione, la persi di vista ma ancor adesso, ogni tanto la penso.
Autunno 1970. Un altro ricovero. Questa volta a Monte Catone di Imola, in un nuovo centro di rieducazione.
Ancora ginnastica, ma ormai tutto quello che si poteva fare su di me era stato fatto.
Finito quel ciclo, me ne prescrissero un altro per la primavera del '71.
Passai l'inverno tra il 1970 e '71 a casa, continuando a fare ginnastica, mentre Giovanna continuava a venire tutti i giorni durante la sua pausa al lavoro ed alla sera, quando tornava a casa, poi al sabato e alla domenica pomeriggio, tutto come ho già scritto nelle pagine precedenti.
Primavera 1971. Terminai gli altri due mesi di rieducazione a Monte Catone.
Nel frattempo i miei genitori e quelli di Giovanna si erano iscritti ad una cooperativa edilizia per acquistare con il mutuo un appartamento a Lavino di Zola Predosa.
Nella primavera del '71 erano già passati quattro anni e mezzo circa dall'incidente. Durante tutto questo periodo, nei momenti in cui ero a casa, devo ricordare un'altra persona che mi fece molta compagnia: il nonno Piero, padre di mio padre.
Anche lui era venuto ad abitare al piano sopra di noi, in casa con lo zio Ilario; tutti i giorni veniva in casa mia e stava tutto il giorno seduto su un divanetto a farmi compagnia, ma quando arrivava Giovanna lui se ne andava, dicendo: “ Adesso hai una compagnia meglio della mia, me ne vado a fare un giro e ci vediamo domani ”.
Nella primavera del '71 ci lasciò; era molto buono e la mia disgrazia lo provò moltissimo. Ciao nonno, ti voglio bene.
In questo periodo ho conosciuto un'altra persona che mi ha fatto molta compagnia e con la quale siamo diventati amici.
Gianni abitava al numero civico 4 di via Gramsci, io al numero 2; lui stava frequentando l’ultimo anno di ragioneria, sua madre faceva lavori di sartoria; lui si dilettava in cucina a fare pranzi e dolci vari, così lasciava più tempo alla mamma per lavorare. Ogni tanto, quando gli riuscivano dei dolci fatti bene, me ne portava un po’ e così, tra un dolce e l'altro, passavamo molto tempo insieme con lui, Angela (la sua fidanzata) e Giovanna.
Comunque di Gianni parleremo meglio più avanti.
In quel periodo, purtroppo, la mamma di Giovanna iniziò ad accusare dei malori e cominciò a fare delle visite; le prime diagnosi riconducevano al sistema nervoso e ad un po' di depressione, ma ad un certo punto più nessuno diede valore a quella diagnosi, anche perchè era sempre stata una donna super attiva, una grande lavoratrice e il suo lavoro era tutto finalizzato al bene della sua famiglia.
Come già avevo scritto, anche i genitori di Giovanna si erano iscritti per l'acquisto di un appartamento, ed era proprio la mamma che lo desiderava e lo voleva fortemente, non tanto per andarci ad abitare ma come investimento, perchè aveva anche idee di investire per il futuro.
Ersilia, questo era il suo nome, continuava a non stare bene; con visite mediche più approfondite scoprirono che aveva problemi al fegato, soffriva moltissimo e non riusciva a lavorare come avrebbe voluto. Le sofferenze continuarono, venne ricoverata in ospedale, curata e assistita dai figli e dal marito Aristide.
Mancò ai suoi cari il 2 luglio 1971 (nota: il giorno del mio compleanno). Provai anch'io una vera angoscia, ero sicuro che mi aveva accettato bene come fidanzato della sua primogenita. Ricordo che quando andavo a trovare Giovanna, sua mamma accendeva la TV, io e Giovanna, come sempre, ci sedavamo davanti alla TV per vedere la trasmissione, lei invece girava le spalle alla TV e con i suoi ferri, faceva la maglia; quando le chiedevo :
- " Ma perché non guardi la televisione? ”
lei rispondeva " io voglio vedere in faccia con chi parlo ", riferita a noi.
Era compiaciuta e parlava con noi, si vedeva benissimo la sua contentezza per il nostro fidanzamento, anche se eravamo giovanissimi.
Capitò che un pomeriggio mi detti una martellata su un dito. Dopo tre o quattro giorni il livido si era aperto e aveva fatto un po' d'infezione; una sera Ersilia se ne accorse e volle vedere la ferita. Naturalmente mi presi una "sgridatina", lei prese fuori dalla vetrina l'acqua ossigenata e cominciò a pulirmi il taglietto. Io mi sentivo un po' coccolato vedendo che prendeva tutte le precauzioni per non farmi male ed ogni tanto dicevo "ahi", così lei si fermava e diceva "ora faccio più piano".
Poi, ogni volta che andavo là, voleva vedere la ferita, così fino alla guarigione.
Ersilia sei stata una grande moglie e una grande madre e per quel poco di tempo che ti ho conosciuto sono sicuro che saresti stata anche un'ottima suocera.
E ti posso garantire che tua figlia non è da meno!
Ciao, ti vogliamo bene.
Per Giovanna iniziò un futuro molto impegnativo.
Sua sorella Anna si era sposata nell'autunno del 1970, quindi in famiglia erano rimasti suo padre, il fratello di 19 anni e la sorellina di 10 / 11 anni, così la mia Giovanna si assunse la responsabilità di tutta la famiglia.
Lavorava ancora in fabbrica, però c'era aria di crisi: il titolare dell'azienda era vecchio e voleva chiudere, non subito ma le sue intenzioni erano comunque quelle.
Intanto noi, cioè io e la mia famiglia, andammo a vivere nel nuovo appartamento a Lavino di Zola Predosa.
Era l'autunno del 1971, Giovanna e la sua famiglia continuavano ad abitare nel vecchio podere, ma avrebbero dovuto lasciarlo presto, perché da lì sarebbe dovuta passare l'autostrada e quindi la casa sarebbe stata demolita.
Dopo la morte della mamma di Giovanna, Aristide non era più motivato all'acquisto del nuovo appartamento, quello così tanto desiderato da Ersilia, ma Giovanna non era assolutamente d'accordo a recedere da quell’acquisto, così riunì i fratelli e con una riunione di famiglia convinsero il padre a realizzare il progetto della mamma. Nell'inverno tra il 1971 ed il '72, si trasferirono provvisoriamente, nell'attesa che il nuovo appartamento fosse pronto, in una casa a dir la verità abbastanza bruttina e umida. Per la famiglia fu un brutto inverno, ma in primavera il loro appartamento fu pronto.
Io e Giovanna eravamo contenti, perché ora eravamo vicini per vederci, ma in quel periodo il lavoro per lei aumentò e di conseguenza il tempo da dedicarmi era inferiore; nonostante ciò, eravamo ugualmente contenti, perché eravamo vicini di casa.
Il fratello partì per il servizio militare nel corpo dei Vigili del Fuoco, dove poi rimase; la sorellina continuava la scuola media ed il papà lavorava in fabbrica. Anche Giovanna continuava il suo lavoro nell'azienda, dove la crisi non accennava a diminuire, così tra Giovanna e Paola cominciò a concretizzarsi l'idea di mettersi in proprio. Maria, la sorellina, tutti i pomeriggi veniva da me a fare i compiti e nel suo diario, in ogni pagina, compariva un nome e cognome: Adelmo Rossi (il suo attuale marito), che era il suo filarino già dalle elementari!
Nel gennaio 1972 Paola partorì un bel bimbo di nome Lorenzo.
Estate 1972. Io rimanevo a casa e per me incominciò un nuovo periodo, di riflessioni e pensieri per il futuro, come sarebbe stato e cos'avrei fatto; da questo periodo fino all'agosto del 1977 si aprì per me un nuovo capitolo della mia vita, che ora vi racconterò.
Partiamo? Ok, partiamo!
Il mio lavoro quotidiano era sempre la ginnastica; comprammo una cyclette che aveva il manubrio collegato ai pedali. Mio padre, con l'aiuto di mia madre, mi metteva in sella ed io da lì, muovendo il manubrio, muovevo anche le gambe; facevo circa dieci chilometri al giorno ed era un tipo di movimento che mi dava soddisfazione.
Durante il tempo che passavo da solo i pensieri erano un po' tristi, mi guardavo e capivo che le probabilità di trovare un lavoro erano veramente poche.
Ripresi gli studi, per avere la licenza delle scuole medie, tramite la scuola per corrispondenza Accademia. Al primo esame fui bocciato, ma nella preparazione per il secondo tentativo mi aiutarono due ragazzi mandati dall'abate e grazie a loro fui promosso. Cominciai a studiare per fare “tre anni in uno" di ragioneria, ma feci più o meno i primi due poi smisi, perché non ero convinto che una volta diventato ragioniere avrei trovato così facilmente un lavoro, come alcuni credevano.
Io pensavo che non sarei potuto andare tutte le mattine in un ufficio, avrebbero dovuto portarmi e venirmi a prendere ogni giorno; avevo poi altri problemi, più personali, che ora non vi descrivo, ma sono intuibili.
Comunque la mia vita procedeva. Io e Giovanna ci vedevamo a sere alterne e durante la domenica, si continuava a stare insieme. Eravamo contenti e felici, anche se trascorrevamo tutto il nostro tempo in casa. Tra le mie mura domestiche non volevo usare la carrozzina, così usavo un sedia con sotto le ruote e per spostarmi mi spingevo da un mobile e l'altro, poi riuscivo a spostarmi anche stando in piedi e facendo qualche passo con il deambulatore.
Timidamente cominciammo ad uscire con la sorella di Giovanna, Anna, con suo marito Luigi detto Gigione, Paola e Luigi; andavamo la domenica pomeriggio a fare qualche giro in macchina.
Ma continuavo a pensare a cosa avrei potuto fare per cominciare a guadagnare qualche soldino e crearmi un futuro.
Pensando, pensando, mi venne un'idea: se c'era gente che vendendo si guadagnava uno stipendio, perché non potevo provarci anch'io? Ne parlai in casa e mi diedero il permesso di usare la camera che io usavo già come sala da ginnastica e dove ricevevo gli amici. Il problema successivo era: vendere che cosa? Ne parlai con Giovanna e decidemmo di provare con delle borse, portafogli e borsellini. Telefonai ad una ditta che fabbricava articoli in pelle, spiegai il problema e loro mi dissero che potevo andare prendere quello che volevo, tanto l'importante era che prima di andarmene passassi dalla cassa..
Andammo a vedere e feci i primi acquisti, portai a casa alcune borse e qualche portafoglio. Nella mia stanza mi costruirono una scansia e vi misi sopra gli articoli; come per incanto mi ero inventato un lavoro! Con il passa parola, da un amico all'altro, tra un parente ad altri loro conoscenti, cominciai davvero a vendere e a guadagnare qualche soldino; in principio mi aiutò mio fratello, andavano lui e mia madre a fare la spesa, ma poi non andavano d'accordo su cosa comperare ed eravamo in tre con tre idee diverse, anche se le mie erano più vicine a quelle di mia madre. Continuammo così per qualche mese.
Intanto Giovanna e Paola cominciarono ad ideare l'apertura di un lavasecco ed il loro progetto si realizzò nell'estate del 1973 a Calderino: aprirono un nuovo lavasecco dal nome "Giovanna e Paola".
Giovanna nel lavasecco
Cominciò Giovanna da sola mentre Paola continuò a lavorare in ufficio, in modo che se il lavasecco non avesse avuto una buona partenza, almeno uno stipendio era sicuro.
Per Giovanna cambiarono tutti i ritmi di vita; con il nuovo lavoro cominciava al mattino alle 8,30 fino alle 12,30 e al pomeriggio dalle 15,30 alle 19,30: significava dieci ore al giorno di lavoro, più la famiglia ed anche il sottoscritto … sì c'ero anch'io, con il mio negozio casalingo.
Con l'apertura del lavasecco, Giovanna si comprò la Fiat 500 e con la macchina cambiò anche la nostra vita: la domenica pomeriggio mi caricava e facevamo dei giretti tra Monte Pastore, Tolè, Zocca e così eravamo felici e contenti. Tre o quattro volte al mese andava a fare la spesa per le mie vendite, aveva scoperto un mercato solo per negozi; io intanto mi ero messo in regola e in quel mercato Giovanna andava di mattina e comperava vari articoli che poi io rivendevo ad amici e conoscenti.
La nostra vita continuava benissimo e naturalmente la gente con i loro pettegolezzi si interrogava su noi due, se ci saremmo sposati, se lei prima o poi mi avrebbe lasciato perché non poteva sposare uno come me; addirittura c'erano persone che davano consigli a Giovanna, la consigliavano di stare attenta, di pensarci bene.
Altri dicevano a me di lasciarla andare, di non essere egoista.
Noi sentivamo tutto questo mormorio, lo percepivamo perchè le persone erano curiose, ma noi badavamo solo a tirare avanti come meglio potevamo ed al matrimonio ancora non ci pensavamo veramente. Parlavamo di queste cattiverie, ne eravamo dispiaciuti, anche noi sapevamo che le difficoltà erano tante, ma noi stavamo lottando contro tutto e contro tutti proprio per risolvere questi problemi. Purtroppo erano più i pettegolezzi cattivi che quelli favorevoli alla nostra storia, ma noi eravamo comunque determinati ed eravamo sicuri che il nostro amore fosse un amore naturale, ci volevamo bene, c'era e c'è il massimo rispetto tra noi.
Insomma questa storia, la nostra storia, doveva proseguire per la sua strada e nessuno poteva farci cambiare idea.
Nell'aprile del 1973 si sposarono anche Gianni e Angela.
Con questi due amici si instaurò un bel rapporto; molte domeniche andavamo a mangiare a casa loro. A Gianni piaceva dilettarsi in cucina e sperimentare nuove ricette, così tra una crema di cipolla, le crescentine e tanto altro, passavano i fine settimana. A noi quattro si aggregarono anche Paola e Luigi.
I genitori di Paola abitavano in una casa di campagna e in quella casa, in quel bel prato, durante l'estate, trascorrevamo dei pomeriggi interi; naturalmente, per pranzo o per cena, Gianni era sempre impegnatissimo nei preparativi ed esperimenti culinari. Altre volte invece si organizzavano gite al fiume, dove prendevamo il sole oppure gite in collina.
A noi non mancavano mai bellissimi intinerari, bastava cercarli ed organizzare, partire e la bella giornata era garantita; a volte pranzavamo al sacco, a volte in ristoranti cercati sul posto. Il periodo che stavamo passando era bello in tutti i sensi: si lavorava e ci si divertiva, non c'era tempo per oziare.
Un bel giorno, nell'inverno del 1974, mio cugino Moreno comprò una ricetrasmittente portatile, i cosiddetti CB; ma cos'era esattamente? Con quel apparecchio, che in quel periodo stava spopolando, si poteva parlare tra persone, più o meno lontane.
La lontananza era legata alla potenza della radio, al tipo di antenna ed ad altri componenti. Mio cugino mi prestò quel apparecchio per alcune sere, cosi cominciai a scoprire un altro mondo; specialmente di sera, la radio mi permetteva di ascoltare o parlare ad una massima distanza di due o tre chilometri con Giovanna.
Accendevamo la radio e sul canale 21, frequenza 27,215 Mhz, ci mettevamo ad ascoltare, sentivamo strani nomi tipo Slalom, Ufo, Orlando, Tarantola, Torpedo, Dollaro eccetera.
Questi erano tutti i CB che abitavano non molto lontano da casa mia, così prendevamo nota dei nominativi e cercavamo di capire chi erano; una volta individuati, anch'io cominciai i primi timidi break per entrare nella “ruota” dei partecipanti. Per “ruota” si intendevano le persone che partecipavano e parlavano a turno, lasciando un paio di secondi tra la ripresa dei contatti, ed in quello spazio il nuovo arrivato doveva dire "break" così si faceva sentire ed al turno successivo veniva inserito.
Cominciai a fare alcune conoscenze ed il bello era che alcuni di loro erano persone che conoscevo già benissimo, giocavamo insieme a briscola nel bar, prima del mio incidente; ma la gittata della mia radio era corta, mentre gli altri, che avevano antenne sui tetti e radio più potenti, si collegavano anche a 30 - 40 chilometri; io rimanevo escluso e siccome il giochino mi piaceva, non mi piaceva rimanere escluso.
Il destino volle che un pomeriggio, mentre ero in negozio da Giovanna (Paola lavorava ancora in ufficio) un cliente mi consigliò di prendere un CB; io gli dissi che avevo già un portatile, ma era molto limitato e lui mi disse che capiva, perché i "mattoncini" (così venivano anche chiamati) non avevano un raggio molto esteso, ma se volevo, lui aveva quello che poteva fare per me! Cominciò a spiegarmi che lui ce l'aveva da quando in Italia erano ancora illegali e lo usava con altri amici nelle vigne, come antenna usavano fili di ferro tagliati dai filari delle vigne, solo che un giorno il padrone della vigna li denunciò ed i carabinieri gli fecero la posta e glielo sequestrarono. Ma anche se in quel periodo avevano tutti precarie condizioni di lavoro, si divertivano tantissimo e, quando c'era una giusta propagazione, facevano collegamenti anche con Germania, Francia ed altri stati. Mi propose di vendermelo ed io accettai, cosi mi diede la sua radio per 100.000 lire. Era un Lafayette HB 23, con una antenna per auto ed un alimentatore da 12 volt.
Mio cugino Moreno ed un suo amico che studiava ingegneria elettronica mi montarono l’antenna in terrazzo.
Io con quel nuovo impianto allungai la gittata della mia radio, ma era ancora troppo poco per me. Eravamo in principio dell'estate e più parlavo più volevo parlare ed arrivare più lontano.
Informandomi, trovai un'antenna usata, chiesi ad un antennista la spesa per montarla sul tetto di casa, poi chiesi al condominio il permesso per l'installazione e mi fu concesso. Tutto fu montato ed io divenni operativo quasi al top. Con quell’antenna parlavo, a seconda di com'era la propagazione, molto lontano, anche in Sicilia e all'estero. Mi feci molti amici, naturalmente via etere iniziai a conoscerli tramite la sigla che ognuno dava, ma niente di più. Infatti i consigli che mi davano alcuni CB del paese erano di non invitare mai nessuno se non lo conoscevo bene.
Il baracchino o "CB" sembrava un hobby un po' banale, di poco conto, invece mi accorsi che pian piano ci stava cambiando la vita; potevamo parlare con amici e conoscenti stando in casa o in macchina. Infatti montammo il CB sulla 500 e la domenica, quando facevamo il nostro giretto, comunicavamo con altri CB e molte volte capitava che ci trovassimo per un veloce saluto.
Anche Gianni e Luigi vennero contagiati da questa passione e lo misero in macchina; era molto divertente quando si facevano le nostre gite domenicali e rimanevamo in collegamento da macchina a macchina. Io poi, da casa ero sempre collegato, specialmente di sera. Saltavano fuori continuamente nuovi personaggi e, come ho già detto, siccome molti li conoscevo mi faceva molto piacere risentirli.
Una sera sentii uno che mi chiamava con una voce molto debole, bassa bassa; gli chiesi da dove parlava e chi era e mi rispose che era "Baffo Riccio", che modulava (cioè parlava) da Zola Predosa, da sopra i Carabinieri. Mi rilanciò la parola e io gli chiesi con che radio parlava; rispose che aveva una radio auto-costruita con una antenna fatta con un filo. Da allora diventammo molto amici e lo siamo tutt’ora.
Il mio lavoro casalingo era aumentato; molti CB che abitavano nei paesi limitrofi a Zola Predosa venivano a vedere la merce e molte volte comperavano. Conobbi due CB, erano due fratelli ed avevano una pellicceria molto affermata, due persone squisite; quando scoprirono chi ero e cosa facevo per vivere, mi proposero di darmi in conto vendita colli di volpe o di castoro, cappotti e giubotti di pelle. Io accettai e riuscii a vendere anche questi articoli.
Quando io di pomeriggio andavo con Giovanna nel suo negozio, a casa ci rimaneva mia madre ed era un'ottima venditrice.
Autunno 1974. Tutto procedeva bene, io ero super impegnato, Giovanna il doppio di me, continuavo a parlare con il CB specialmente di sera, al sabato ci mettevamo a modulare verso mezzanotte e tra una barzelletta e l'altra facevamo venire mattina.
Grazie al CB, il destino e la mia voglia di fare mi stavano cambiando totalmente il futuro. Un bel giorno un amico CB mi disse: “ Tu, che sei spesso in frequenza, prova a chiedere in giro se si trova un baracchino usato con queste caratteristiche: 120 canali AM, FM, SSB ”. Io ne parlai con Vittorio (CB Baffo Riccio), che mi disse che lo avrebbe chiesto in giro, così provammo a cercarlo. Infatti, dopo qualche richiesta trovammo un apparato con quelle caratteristiche. Il proprietario voleva 160.000 lire ed io lo dissi a chi mi aveva fatto quella richiesta; la proposta gli andava bene, così me lo portarono ed io lo diedi al richiedente, che invece di darmi le 160.000 lire richieste, me ne diede 180.000.
Io non volevo, ma lui insistette e così accettai.
Le richieste continuarono anche da altri conoscenti e, io che ormai ero un commerciante, pensai di parlare al Baffo di una mia idea e decidemmo di fare un tentativo: lui era appassionato di elettronica ed era in grado di riparare dei baracchini, così cercammo un magazzino che vendeva questo materiale, telefonai spiegandogli cosa volevamo fare ed il titolare mi disse di andarlo a trovare per parlarne insieme. Io ed il Baffo gli esponemmo le nostre intenzioni e lui acconsentì a darci del materiale in conto vendita così cominciammo a portare a casa qualche CB e qualche accessorio.
Iniziai a pubblicizzare la mia nuova attività in frequenza e così, da venditore di articoli in pelle, cominciai anche a vendere articoli per radio amatori CB.
Io e il Baffo impostammo la nostra società sulla parola; mentre io vendevo e ritiravo radio da riparare, lui oltre a riparare, andava al magazzino a ritirare il materiale ordinato dai vari CB che contattavamo via radio. Mi si stava prospettando un nuovo lavoro.
Inizialmente misi questo lavoro in coda all'altro, cominciai a leggere libri e riviste di elettronica, per capire che cosa erano transistor, resistenze e tanto altro, per essere aggiornato e non essere uno sprovveduto quando parlavo con dei radio amatori.
Ormai il mio nuovo mondo erano i CB: mi ero anche iscritto all' "Associazione CB Guglielmo Marconi" e, come me, tanti altri conoscenti che frequentavo.
Avevamo formato un gruppo abbastanza nutrito, al punto da chiedere di poter creare una sede distaccata a Zola Predosa. Ci fu accordata la possibilità di farlo; il Comune di Zola ci diede una sede e nacque il "Gruppo CB Zolese".
Io ne ero il segretario e pure questo mi teneva impegnato, perché tutti i venerdì ci incontravamo nella sede per parlare (e a sfogliare fette di salame!).
Per mantenere le spese del locale, organizzavamo qualche festa di ballo liscio e spesso, di sabato o domenica, andavamo a mangiare le crescentine, organizzandoci via radio.
Siamo ormai nel 1975 e in quell'anno Paola si licenziò per prendere posto fisso nel lavasecco insieme a Giovanna. In quegli anni nacquero anche nipoti e figli di amici.
Il 1976 passò tranquillamente, io e Giovanna cominciammo a parlare di matrimonio; a Giovanna sarebbe piaciuto andare a vivere da soli, ma io avevo la paura ed il timore che non ce la facessimo.
Erano i primi pensieri, ma l'intenzione c'era.
Purtroppo mio padre cominciò ad accusare dei malesseri, fece degli esami e scoprì che aveva dei problemi ai reni. Io parlai ai miei genitori dell'idea del matrimonio e loro naturalmente ne furono felici, avrebbero passato la loro camera da letto a me e Giovanna ed avremmo potuto arredare la grande sala a nostro piacere.
Fissammo la data del matrimonio: 20 agosto 1977.
Nei mesi che intercorsero prima del matrimonio, la malattia di mio padre peggiorò e venne ricoverato più volte in ospedale, ma purtroppo il destino ancora una volta si stava accanendo contro di noi. Mio padre era contentissimo del nostro matrimonio, ma una settimana prima, esattamente il 12 agosto, passò a miglior vita..
Immaginate la mia disperazione, la nostra disperazione. Io ero molto legato a mio babbo, ho dei ricordi fin da molto piccolo.
Lo aiutavo nel suo lavoro di pastore e in estate, fin dall’epoca delle elementari, mentre mio padre era al pascolo io dovevo spargere la paglia nell'ovile e riempire un contenitore di acqua (dove le pecore si dissetavano), prendendola da un pozzo che era distante circa cento metri dall'ovile e, con due secchi per volta, facevo sette o otto giri. Poi di sera c'era da fare formaggi e ricotta, ma questo lavoro lo faceva mia madre; noi figli eravamo gli aiutanti, non sempre eravamo presenti e qualche volta andavamo al bar. Durante l'inverno portavamo le pecore in un altro ovile, più robusto e molto ben riparato dalle intemperie. Io ci andavo la domenica mattina e quando c'era la neve dovevo riempire le mangiatoie con il fieno e la fettuccia. Il fieno andava prima sminuzzato con una macchina che aveva un nastro trasportatore con assi ai lati e un cerchio, posto in cima al tunnel, con due coltelli posti uno dirimpetto all'altro.
Girando la ruota il fieno veniva trasportato sotto ai coltelli e veniva sminuzzato; tutto questo era un lavoro manuale ed io ci mettevo anche due ore o forse più per arrivare alla giusta quantità, poi il fieno veniva messo nelle mangiatoie e ancora bisognava portarci la fettuccia. Era un lavoro faticoso, ma il babbo ed io lo facevamo in tutta allegria, io non volevo essere inferiore a lui, quindi erano grande faticate e quando riuscivo a fare le sue stesse quantità glielo facevo subito notare.
Anche dopo il mio incidente, mio padre era sempre presente; anche quando ero in ospedale, con qualsiasi clima. Lui e Giovanna, nelle sere stabilite della visita, difficilmente mancavano e si vedeva nel suo volto la sua contentezza per aver portato la mia fidanzatina
Ciao babbo, ti voglio bene, anzi ti vogliamo bene!
Decidemmo di sposarci ugualmente nella data fissata. Di quel giorno ricordo pochissimo, provavo una grande rabbia per il decesso del babbo, oltretutto proprio in quella settimana.
La mamma di Giovanna era morta il 2 luglio, giorno del mio compleanno, e mio padre vicino al giorno del mio matrimonio.
Per la cerimonia, Anna (sorella di Giovanna) aveva organizzato un semplice pranzo, per pochi intimi, in casa loro. Il giorno dopo tutto tornò alla normalità (..si fa per dire!), eravamo sposati e dovevamo vivere davvero insieme, in casa con “la suocera”. Di questo non eravamo molto soddisfatti, avremmo preferito una casa tutta nostra, ma Giovanna diceva sempre che con il tempo saremmo arrivati a realizzare anche questo sogno.
Il nostro matrimonio 20/08/1977
Franco e Giovanna sposi – 20 agosto 1977
La vita proseguì, eravamo molto felici; Giovanna vendette la Fiat 500, perché io avevo la 128 di mio babbo che aveva deciso di prendere la patente.
Arrivò il 1978. Il lavoro di vendita di baracchini, accessori e qualche riparazione, andava molto bene, fino al punto che lasciai perdere il commercio della pelle per dedicarmi unicamente ai CB.
Le idee erano grandi, pensieri così si hanno solo quando si è giovani. Per le ferie di quell'estate, Gianni e Angela ci proposero di andare tre giorni sulle Dolomiti.
Io non ero mai stato lontano da casa per le vacanze, tantomeno per dormire fuori. Rifiutai subito, ma loro insistettero; Giovanna era d'accordo e con noi sarebbero venuti anche Paola e Luigi. Così partimmo il 21 di agosto per questa avventura; partimmo senza prenotare nulla, così, allo sbaraglio.
Io, Giovanna, Paola e Luigi viaggiavamo con la Fiat 128, Gianni e Angela con la Citroen GS.
Entrambi eravamo equipaggiati di baracchino per rimanere in comunicazione tra un'auto e l'altra; il viaggio fu bellissimo, ero contentissimo di essere partito e la comunicazione tra le nostre due auto erano ottime.
La prima tappa fu la Val Pusteria, a Villa Bassa. Prenotammo le stanze per la notte ed andammo a girare tra le montagne. A pranzo mangiammo al sacco, con pane e salumi comprati sul posto; continuammo il nostro giro per le valli ed ad ogni curva, ogni volta che spostavo lo sguardo, apparivano sempre nuovi panorami.
Io e Giovanna - Lago di Braies m 1496 sm si trova tra Monguelfo e Villabassa pr. di Bolzano (estate 1981)
In ammirazione alle Pale di S. Martino nel parco naturale Panevaggio m. 2500/2800 sm. Pr. di Trento
Vidi il Massiccio del Cristallo, le Tre Cime di Lavaredo, il Lago di Braias. La sera mangiammo in un ristorante tipico i knodel e la polenta con il capriolo: deliziosi!
Arrivati alla pensione, Gianni e Luigi mi portarono al primo piano, poi Giovanna ed io entrammo nella nostra camera; c'erano i pavimenti in legno e ricordo che la pensione era in realtà un vecchio Castello.
Nel momento in cui mi misi di fianco al letto per salirci, mi accorsi che c'era un problema: il letto era alto oltre un metro! Ridendo, ci avvilimmo un po' ed io proposi di chiamare qualcuno, ma Giovanna non volle e così tra una sua spinta ed una mia arrampicata alla fine ci riuscimmo, mi sistemai sotto le coperte, ma anche quelle erano strane, c'era solo un piumone e a me mancavano le lenzuola! Mi sentivo troppo in alto ed avevo anche un po' paura di cadere, così mi convinsi a stare fermo immobile. Sentimmo bussare alla porta, erano i compagni di avventura che venivano ad informarsi se eravamo riusciti ad andare a letto; rimasero lì con noi a chiacchierare per un po' poi ci diedero la buonanotte.
Giovanna venne sotto il piumone e spense la luce, ma sembrava che non avesse spento proprio niente: la luce era sempre uguale! Ci accorgemmo che c'erano cinque finestre: figuriamoci che Giovanna dorme solo se c'è buio completo e silenzio assoluto! Oltretutto dalle finestre si sentiva scorrere il ruscello sottostante con il suo caratteristico rumore d'acqua e, come se non bastasse, un vicino campanile con un' enorme campana che suonava ad ogni ora.
Arrivò la mattina e per lavarci in camera c'era la brocca dell'acqua con il catino, esattamente come negli anni '50, poi siamo scesi per una colazione abbondante con latte, caffé, biscotti, pane e salumi: ci facemmo una bella scorpacciata, poi ripartimmo per una nuova avventura.
Ci fermammo anche in una pasticceria per acquistare il famoso strudel ed i bomboloni ripieni di crema come dessert per il nostro pranzo al sacco, ma arrivato il momento del pranzo il sacchetto era mezzo vuoto e nessuno sapeva il perché!
Passammo due notti e tre giorni in quei posti bellissimi, pieni di fascino, un'avventura indimenticabile, quella fu la mi prima uscita e devo ringraziare Gianni perché ha tanto insistito, convincendomi che potevo farcela anch'io.
Tornammo ognuno al proprio lavoro ed anche il mio hobby stava diventando un vero e proprio lavoro.
E nei fine settimana continuavamo a vedere gli amici, per assaggiare gli esperimenti culinari di Gianni.
Nell'autunno del 1978, con altri due amici, formammo una società con sede in casa mia, denominata "I.V.E.C. sas di Ugolini Franco & C.".
Scritta nel tendone del negozio
I.V.E.C. stava per “Impiantistica Varia Elettronica Commerciale". Cominciammo a vendere anche ai negozi, alle aree di sevizio in autostrada, agli elettrauto; per questo tipo di rivendita ci rifornivamo direttamente dagli importatori ed un amico CB andava per negozi per pubblicizzare la nostra società e vendere i nostri prodotti. C'era molto interesse, perché l'articolo in quel periodo era molto richiesto e lo commercializzavano in pochi.
Ormai in casa il lavoro non era più gestibile ed iniziammo a cercare un posto in paese per poter avere anche un magazzino. Lo trovammo proprio a Calderino, dove Giovanna e Paola avevano il lavasecco. Dico avevano, perché nel 1979 il proprietario dello stabile propose loro una buona uscita perché gli interessava quel sito per farci un'agenzia immobiliare; il signore in questione era cugino del padre di Giovanna e possedeva, di fianco al lavasecco, anche un negozio di abbigliamento.
Trattarono, così Giovanna e Paola passarono dal lavasecco al commercio di abbigliamento, per cui alla fine il lavasecco venne chiuso.
L' I.V.E.C. sas intanto prese in affitto, sempre dal cugino del padre di Giovanna, un negozio di cento metri quadri, con tre vetrine; prendemmo anche la licenza per la vendita di elettrodomestici ed accessori.
Nel Giugno del 1980 inaugurammo la nuova sede, con un laboratorio di assistenza, un ufficio e il negozio; partimmo con molto entusiasmo, anche se portare avanti la nostra attività era diventato molto difficile: in quegli anni iniziavano a nascere i primi ipermercati e, giustamente, la gente preferiva andare in negozi dove prima dell'acquisto poteva vedere e scegliere tra diversi modelli, risparmiando anche sul prezzo. Fortunatamente noi avevamo ancora un buon giro d'affari con i baracchini.
Tutti i giorni lavorativi Giovanna mi portava in negozio, poi lei andava nel suo.
A pranzo tornavamo a casa, poi mi riportava al lavoro; di sera stesso percorso, all’inverso.
Potrebbe anche sembrare una procedura semplice, ma era Giovanna che doveva fare tutta la fatica ogni giorno per organizzare i miei trasferimenti; così a volte, dopo pranzo, mi riportava al lavoro Vittorio (CB Baffo Riccio), un socio matto come me.
Avevamo messo insieme un lavoro abbastanza rischioso, solo con la volontà di migliorare il nostro tenore di vita; ci accorgemmo subito che era molto dura, ma ormai ci eravamo dentro e bisognava andare avanti!
Dal 1979 fino all'estate 1987 avevamo preso l'abitudine di trascorrere ogni anno almeno otto giorni di ferie al mare, a Gabicce Mare in provincia di Pesaro, poi tre giorni sulle Dolomiti; ogni anno si aggregavano a noi altri amici o parenti ma io, Giovanna, Gianni, Angela, Luigi e Paola ormai eravamo diventati inseparabili: che bel periodo!Ogni tanto io andavo un po’ giù di morale. Anche se ero super impegnato e circondato da persone che non mi facevano sentire mai il peso del mio problema, dovevo sempre chiedere aiuto agli altri: anche quando mi cadeva in terra un foglio di carta dovevo chiamare qualcuno per raccogliermelo. Devo un elogio a tutti i miei collaboratori, uno in particolare a Vittorio, perché io e lui passavamo insieme anche dieci ore al giorno; lui era in laboratorio con il grembiule bianco, riparava baracchini ed altro, mentre io in negozio facevo fatture, concessioni per i CB, quando entrava un cliente gli spiegavo il funzionamento dell’articolo al quale era interessato, poi se lo acquistava bisognava imballarlo. A quel punto intervenivano Vittorio o Angela, la nostra addetta alla contabilità, che passava in negozio solo la mattina.Gli anni passarono, Angela si ritirò dal negozio e rimanemmo solo io e Vittorio; il lavoro andava abbastanza bene, si vendevano e si installavano su camion, camper e auto centinaia di baracchini ogni anno.Anche a Vittorio piaceva cucinare e una domenica ci fece gli arancini siciliani; non era certo un piatto della nostra cucina emiliana, ma erano ottimi!Gli piaceva anche cucinare il pesce, e non mancarono le domeniche in cui ci facemmo ottime scorpacciate. Giovanna e Paola erano molto brave e lo sono ancora, specializzate in tigelle e anche di quelle ne abbiamo mangiate veramente a quintali! Nel 1981 morì la nonna paterna di Giovanna, quella nonnina di cui ho già parlato precedentemente; ero molto ben voluto da lei e con Giovanna andavamo spesso a trovarla.Viveva in una casa di campagna con due figli non sposati e ogni volta che si andava a farle visita, anche in compagnia di Anna e del marito Luigi, lei era molto contenta. Non mancavano mai la ciambella ed un bicchiere di vino, stavamo intorno al tavolo e lei si preoccupava che non avessimo mai il piatto ed il bicchiere vuoto. Quando poi veniva il momento di salutarci lei era molto dispiaciuta, glielo si leggeva negli occhi, stava sulla porta e ci salutava fino a quando non eravamo spariti dalla sua vista.Ciao nonna, ti abbiamo voluto molto bene e sapevamo che tu stravedevi per i tuoi nipoti e per noi. Nell'estate del 1983, dopo il mare, invece di andare sulle Dolomiti andammo in Valle D'Aosta; là ci aspettavano “il papero” e “la papera” (naturalmente si tratta di due sigle da CB). Ci eravamo conosciuti in negozio e tra di noi era nata subito una grande simpatia, così cominciammo a vederci e parlarci tramite il CB, così loro ci chiesero di raggiungerli in Valle D'Aosta per le ferie.Quel giorno arrivò e li rintracciammo con i nostri baracchini, poi ci mettemmo in cerca di un posto per dormire; ma per chi poteva spostarsi con le sue gambe non sarebbe stato un problema salire le scale a chiocciola delle baite.. Diventava invece impossibile far salire anche me, così decidemmo di spostare la nostra ricerca verso la città di Aosta. Ci spostammo dalla valle di Cogne (che mi pareva molto più brulla rispetto le Dolomiti) verso il Gran Paradiso, un panorama da mozzare il fiato! Ricordo che mangiammo in un ristorante un piatto di polenta e fontina, che a me non piacque molto. Nel pomeriggio tornammo sulla strada che ci portava in città per cercare un albergo accessibile anche a me, ma dopo alcuni tentativi credevo proprio che avrei dovuto dormire in macchina.Finalmente verso sera trovammo posto in un hotel per camionisti, un hotel brutto, con brutte camere, ma ci trascorremmo comunque due notti.Dedicammo il secondo giorno alla visita della vallata del Cervino, con paesaggi che ti lasciavano davvero per un attimo senza respiro. Che dire del Cervino.. meraviglioso ed imponente, quanto solitario (secondo me non esiste una montagna con lo stesso fascino suo), di una maestosità incredibile; sembra che anche lui ti guardi e ti voglia parlare.Lì vicino c’era un bel lago dall’acqua limpida e freddissima, ricco di trote, così decidemmo di tornare nel pomeriggio per pescare, dopo aver pranzato all’aperto assieme ai nuovi amici “paperi”, simpaticissimi. Tornammo nella valle ai piedi del nostro amico Cervino, là dove c'era il laghetto; prendemmo le canne in affitto, una anche per il piccolo Filippo.Chi è Filippo? È il bimbo di quattro anni, figlio di Gianni e Angela; pensate che sua madre lo voleva chiamare Antonio, ma io preferivo Filippo e fin da quando era nel pancione, insistevo chiamandolo con quel nome. Fu così che quando nacque, anche i genitori optarono per Filippo!Il bimbo era di una felicità immensa e con la sua canna corse verso il laghetto da solo, gettò l'amo senza esca ed il caso volle che pescò una bella trota.Figuratevi la felicità del bambino, faceva dei salti che sembrava una scimmietta.
Era veramente facile pescare in quel lago ricco di pesce e, dopo aver pescato una decina di trote, ai “paperi” venne l'idea di chiedere al ristoratore del campeggio dove loro erano ospitati se potevano cucinarci le trote che avevamo pescato; il cuoco acconsentì e la seconda sera che eravamo in Valle D'Aosta ci facemmo una ottima mangiate di trote.
Gabicce Mare, appena scesi da un giro in barca
Io vi racconto le mie avventure, ma ricordiamoci che i miei spostamenti avvenivano sempre sulla carrozzina, quindi ringrazio i miei motori di spinta Gianni e Luigi, ed in questa avventura anche il Papero; vi garantisco che su e giù per quelle salite c'era davvero da spingere, ma i miei motori erano giovani e forti non creavano problemi.Durante quel viaggio visitammo anche Cervinia, luogo molto suggestivo, circondato dalla neve anche in agosto. Anche se io lassù non avrei mai voluto abitarci, mi sembrava di essere fuori dal mondo.Andammo a Chamonix attraverso il tunnel e, anche se a detta di qualcuno da quel tunnel bisognava passarci perché era molto bello, per me in realtà era solo buio e troppo lungo.Poi ancora altre vallate, tra le quali una che portava ai piedi del Monte Rosa.Nel tornare da quella valle alla macchina del Papero saltò il fusibile che gestiva gli stop, ovvero le due luci dei fanalini rossi posteriori. Con l’occasione dell’inconveniente, decidemmo di prenderla comunque con il sorriso e di fare uno scherzo a Gianni, proprio a lui perchè nelle discese usava molto i freni.Partimmo con le macchine così in sequenza: il Papero davanti, Gianni in mezzo e noi dietro; con la radio ricetrasmittente eravamo come sempre in contatto. Io cominciai a dire a Gianni: “ Come mai tu freni così spesso e Manfredo (il Papero) non frena mai?”.Gianni cominciò a preoccuparsi, infatti guardando attentamente gli stop di Manfredo si accorse che non frenava mai e chiese alla radio come facesse a scendere senza toccare mai i freni; l'altro rispose che lui al contrario usava molto il motore. Io dall’ultima auto vedevo che Gianni provava ad usare la marce più corte, ma con il risultato che imballava il motore e basta.Ci divertimmo un po’ alle spalle di Gianni, poi all'arrivo Manfredo gli spiegò il tutto, sostituì il fusibile e tutto finì con una bella risata.Dal 1978 al 1987 visitammo tanti altri luoghi, oltre a gran Parte delle Dolomiti (la catena della Marmolada, le tre cime di Lavaredo ed il Monte Cristallo) visitammo il parco degli Abruzzi, le grotte di Frasassi nelle Marche e altri posti bellissimi.Ogni volta che andavamo a visitare luoghi nuovi, io proseguivo fin dove potevo arrivare e pretendevo che gli altri proseguissero mentre io li aspettavo in macchina; nel frattempo io passavo il tempo con il CB.Al loro ritorno, mentre ci spostavamo da un posto all'altro in auto, mi raccontavano sempre via baracchino quello che io non avevo visto.Così, grazie ai loro racconti e alle foto, era come se ci fossi stato anch’io.La tecnologia nel frattempo aveva messo a disposizione una carrozzina elettrica, per chi come me per muoversi aveva bisogno della carrozzina. Era grande come una normale, come quelle che si spingevano con le mani, ma questa aveva due motori elettrici da 24 w, uno per ogni ruota, con un circuito elettronico posto a destra o a sinistra (comunque dove lo voleva il disabile) attaccato alla spondina e con una scatola e una leva, la quale permetteva di procedere dritto o girare a destra e a sinistra.Con questa nuova carrozzina andavo ovunque, mi permetteva di fare salite anche ripide e in montagna, non conoscevo più ostacoli e si fermava solo davanti ai gradini o alla sabbia.Da questo periodo in poi anche per me, con questa carrozzina, in città o altri luoghi, iniziava un periodo molto indipendente.Era, ed è, una gran bella sensazione.Un giorno, nell’autunno del 1987, Giovanna mi disse che tramite Virginio (l'agente immobiliare, cugino di suo padre) aveva trovato l'appartamento giusto per noi.Io rimasi un po’ perplesso e infatti non diedi a Giovanna la risposta che si aspettava, cioè un’esclamazione di gioia. Non ero molto intenzionato ad andare a vivere a Calderino, sarei rimasto volentieri a Zola, ma di fatto con i nostri mezzi non ci era possibile acquistare un appartamento a Zola.L'acquisto dell’appartamento che ci proponevano a Calderino, fatti i conti, poteva essere fattibile così lo andammo a vedere. L'appartamento era di circa 70 mq, senza l’ingresso; questa cosa non mi piaceva granchè, ma mi dissero che non era più di moda, che tutte le case nuove erano fatte in quel modo e così mi convinsero. C'erano due bellissime terrazze: una davanti di 40 mq ed una dietro di 20 mq, più un giardino di 38 mq. I garage si trovavano sotto al palazzo e vi si accedeva tramite un tunnel; questo ci avrebbe permesso di salire e scendere dalla macchina rimanendo protetti in caso di pioggia e di accedere al piano dell’appartamento con un ascensore dalle dimensioni appena giuste per accogliere la mia carrozzina elettrica. L’appartamento era situato proprio a metà tra il mio negozio, a 100 metri di distanza, ed il negozio di Giovanna e Paola. Era proprio la nostra casa perfetta! Tutto coincideva e con i nostri risparmi potevamo permettercelo, così a quel punto non potei più dire di no! Così finalmente avevamo una casa tutta nostra! Giovanna, appena ci fu consegnato l'appartamento, cominciò a pulirlo con l'aiuto di Paola e Luigi, poi con la Fiat Uno, comprata alcuni anni prima, iniziò il trasloco e finalmente il 12 marzo 1988 ci trasferimmo.Io dovetti cambiare il mio sistema di spostamento: mentre a Zola mi muovevo sopra una seggiola normale con sotto le ruote e mi spingevo tra i mobili, qui con la sala quadrata e le grandi terrazze, dovetti cambiare seggiola e passare sulla carrozzina, con la quale in casa mi muovevo molto meglio. Purtroppo però la carrozzina a spinta manuale non entrava in ascensore, così, quando dovevo uscire, ero obbligato a passare sulla seggiola per poi andare in ascensore, scendere nel tunnel dove c'erano i garage e salire in macchina. Poi dovevo ripetere lo stesso cambio quando rientravo.Scoprimmo che con la carrozzina elettrica entravo in ascensore perché aveva le ruote posteriori più piccole (e togliendo solo i pedalini potevo entrare senza fare più fastidiosi e faticosi cambi), per cui finalmente Giovanna poteva fare meno movimenti e quindi meno fatiche, visto che ne faceva già tante altre e tutte le volte che si poteva migliorare qualcosa ed eliminare problemi eravamo molto contenti. Cominciò così per me un tipo di vita diversa: eravamo in casa nostra, eravamo super contenti, andavamo a lavorare.Rinunciammo a tante cose come le uscite al ristorante e le ferie, ma dovevamo comprare i mobili della cucina, della cameretta e comunque avevamo anche il mutuo da pagare, tuttavia in un paio di anni siamo riusciti a sistemare la casa come volevamo. Non ci sembrava vero!Eppure era tutto vero e, concentrando tutti i nostri risparmi e limitando le spese superflue, facemmo miracoli!Purtroppo nel gennaio del 1989 ci colpì un'altra disgrazia. Il marito di Anna, Luigi detto Gigione, iniziò ad accusare dei disturbi ed Anna lo portò immediatamente in ospedale, dove fu ricoverato e gli fu diagnosticato un aneurisma; cadde in coma e dopo circa 140 giorni tribolati specialmente da parte di Anna; Luigi passò a miglior vita. Era una brava persona, come ho già detto. Era anche una buona forchetta; nella sua casa abbiamo fatto spessissimo mangiate a base di crescentine e grigliate. Gli piaceva moltissimo crearsi da solo le griglie per la carne.Mi ricordo che si costruì una macchina per fare il carbone; era una specie di forgia che usavano i fabbri per arroventare il ferro da lavorare.Lui diceva che grazie a quel marchingegno era più veloce la cottura della carne, ma noi cognati, sempre sorridendo, gli facevamo notare che non era così; lui però ne era convinto ed era comunque orgoglioso delle sue invenzioni.Portò questa macchina per fare carbone al mare, dove aveva una roulotte nel campeggio di Cesenatico. Una domenica ci invitò tutti per una grigliata di pesce; casualmente, i nostri vicini di piazzola cominciarono le operazioni di cottura del pesce nello stesso nostro momento. Quando loro si misero a tavola per mangiare, Gigione stava ancora passando le braci nel barbecue e diceva con soddisfazione che braci così non le faceva nessuno..Ciao Gigione, sei sempre nei nostri pensieri. Calcolando che io non sono uno scrittore, anzi, quando alle elementari la maestra mi assegnò un tema dal titolo “arriva il treno”, il mio svolgimento fu “mi scanso”, direi che finora ho scritto veramente molto, quindi mi dico “bravo!” da solo. Nel corso di questi anni, oltre a tirare avanti con grande volontà da parte di entrambi, i miei pensieri nei momenti di relax andavano ai ricordi di quando ancora camminavo.Anche se ho accettato di non poter più camminare, non sono riuscito ad abituarmi a questa idea ed i pensieri ritornano alle grandi campagne della pianura ed ai momenti sempre belli tra le colline.Ripensavo spesso agli amici di infanzia del mio paese natìo; mi sarebbe sempre piaciuto fare una rimpatriata e rivedere tutti quei ragazzi, ma non sapevo come contattarli.Una sera vidi un film con Adriano Celentano dal titolo “Serafino”.Raccontava di un pastorello dei monti della Sardegna, impersonato proprio da Celentano; io mi rivedevo in questo pastorello e nel suo modo di vivere, era molto altruista e gli piacevano le ragazze. Poi vinse alla lotteria, tornò al paese e divise i soldi vinti tra tutti i compaesani. Io avrei fatto lo stesso, l’unica differenza era che lui abitava in montagna ed io invece con le mie pecorelle in piena pianura padana, ma per il resto eravamo molto simili.Alla fine del 1992 Giovanna e Paola chiusero la loro attività, non perché mancasse il lavoro, anzi erano fin troppo impegnate lavorando sempre dieci o undici ore al giorno.Purtroppo per noi però non si poteva proseguire, perché io molte volte avevo bisogno di farmi portare in negozio o di tornare a casa all’improvviso perchè non mi sentivo bene e per fare questo avevo sempre bisogno dell’aiuto di Giovanna.Decisero così di chiudere il negozio e di iniziare a fare lavori di sartoria in casa nostra, dove adibirono una camera con una “taglia-cuci” e due macchine da cucire.Il lavoro non mancò e non manca tuttora, ma io ero rimasto comunque turbato dalla chiusura della loro attività, ed anche se entrambe cercarono di convincermi che, nonostante avessi determinato io la loro decisione, era anche pur vero che non potevano reggere ancora per molto quel ritmo di lavoro esagerato. In quel periodo dicevo spesso con Giovanna che mi sarebbe piaciuto avere un cane di piccola taglia o un gatto, ma lei diceva che in casa non voleva animali. Una sera Maria, la sorella più piccola di Giovanna, saputa la mia voglia, ci portò un gattino.Appena lo lasciò libero in casa, sembrò impazzito e cominciò a saltare su e giù per i mobili, arrampicandosi sulle tende ..insomma un disastro, così l’idea dell’animale in casa si allontanò ancora di più.In realtà io continuavo a parlarne, mi sarebbe piaciuto, ma ero ben cosciente che non si poteva anche perché con una bestiola in famiglia significava aggiungere altro lavoro per mia moglie.Maria un giorno di luglio andò in un canile per prendere un gattino ad Elisa (la sua figlia maggiore) e in quel posto c’era una deliziosa cuccioletta, una cagnolina nera. Maria pensò a me , telefonò a Giovanna ma la risposta fu ancora “ No, non voglio animali in casa”.Maria non si perse d’animo, andò a casa con il suo gattino e il pensiero di quella cuccioletta. Da casa ritelefonò di nuovo a Giovanna; niente da fare, il suo era sempre un “no”.Per farla breve, dopo 9 o 10 telefonate Giovanna finalmente acconsentì , dicendo “ mi organizzerò per avere un animale in casa e questa sera facciamo un regalo e una bella sorpresa a Franco “.Era il luglio 1992 e io avrei compiuto 45 anni.Arrivai a casa la sera dopo il giorno del mio compleanno (era sabato, credo), mi trovai davanti un sacchetto di pelo nero scodinzolante. Era bellissima, girava per casa come ci fosse sempre stata.Chiesi: -“ Che è sta roba?! “Giovanna mi rispose :- “ E’ tua, mettile il nome che più ti piace “. Me la diedero in braccio e io decisi di chiamarla Birba. Diventammo subito amici.Ringraziai Maria e naturalmente Giovanna, che ancora una volta si caricava di un impegno pur di farmi contento.
Cominciammo subito pensare “ Dove la mettiamo? “
L’idea fu quella di metterla nella terrazza dietro casa, dove c’è anche un giardino di 40 mq e il terrazzo stesso di 20 mq. La prima sera la mettemmo proprio lì, ma non si dormì: Birba piangeva e Giovanna doveva alzarsi e andare a tranquillizzarla. Di giorno stava in casa e la sera fuori, ma lei non era molto contenta e in verità neanch’io. Quando la mettevamo fuori ci guardava come a dire “ Posso stare con voi? “. Le avevamo preso la cuccia; Paola l’aveva rivestita con della spugna così stava calda, era ben protetta anche da un muro che faceva angolo. Per un cane era un ottimo posto, ma io Birba non la vedevo come un cane..
Contribuivo a tutto, ma non ero per niente convinto e Birba se ne era accorta.
Quando in ottobre le sere erano un po’ freddine, facevo addirittura mettere il termometro nella cuccia!
(In verità c’erano sempre 15 gradi, a volte anche di più..)
In casa Birba stava su un tappeto, in sala vicino alla porta finestra; noi, sempre premurosi che avesse freddo, decidemmo di fare un cuscino imbottito di lana.
Giovanna si mise al lavoro; ancora prima che lei finisse, Birba gli si mise sopra e per quella sera non volle più scendere. Così dormì in casa e non la mettemmo più fuori. Le comprammo un lettino e il suo piccolo nido divenne il posto in sala, vicino alla porta finestra. Crescendo, l’abbiamo abituata a venire in negozio con me. Lei mi precedeva e non sbagliava mai la strada.
Per stare in negozio le comprammo il lettino e glielo mettemmo vicino alla vetrina; lei stava tutto il giorno li, si affezionava molto ai miei amici e faceva loro una grande festa quando venivano a trovarmi.
E così, Birba veniva con me tutti i giorni al lavoro. Lei aveva il suo “orologio interno” e la mattina non sbagliava mai l’ora di partire. Idem la sera: 5 minuti prima che Giovanna ci venisse a prendere , si metteva davanti alla porta con lo sguardo fisso fuori.
Una sera Giovanna era venuta a prendermi, eravamo in ottobre 1996.
Appena entrati in casa il telefono squillò, Giovanna rispose: era una chiamata proprio da Denore, un amico d’infanzia mi stava cercando, Giovanna mi passò il ricevitore, così scoprii che dall’altra parte del filo c’era Adler ..
Proprio così, stava accadendo quello che io desideravo e così anche gli amici del paese dove ero nato: volevamo ritrovarci. Rivederci dopo 30 anni fu una gioia immensa per me e anche per loro, perché da allora abbiamo continuato a vederci.
Parlammo per un po’ e ci accordammo per una domenica pomeriggio; coinvolgemmo anche Franco, un altro amico d’infanzia col quale avevo condiviso lo stesso cortile. All’epoca abitavamo nella stessa casa colonica ed i suoi genitori erano i miei padrini.
Finalmente arrivò quella domenica e dopo 30 anni rividi dei cari amici con le loro famiglie: non vi nascondo di aver provato una grande emozione, sia per il gran piacere nel rivederli sia per aver ripensato ai bei momenti della mia infanzia.
La famiglia di Adler è composta dalla moglie Tina e dalle figlie Erica ed Alice.
Quella di Franco, dalla moglie Maria e dal figlio Stefano.
Dopo le presentazioni e molte chiacchiere, la famiglia di Adler ci invitò a pranzo per il 2 Febbraio, giorno della festa della Madonna di Denore, festa che ricordavamo fin da bambini.
Non vedevo l’ora che arrivasse quel momento e nel frattempo ci risentimmo per gli scambi di auguri per il Santo Natale ed il Capodanno. Finalmente arrivò anche quel momento tanto atteso, il 2 Febbraio 1997; arrivammo a Denore con gli immancabili amici Luigi e Paola e naturalmente con Franco e Maria.
Le signore andarono alla Santa Messa e noi maschietti rimanemmo a guardia della cottura della famosa salamina.
Il tavolo era ben apparecchiato (non per niente le figlie di Adler erano diplomate entrambe alla scuola alberghiera) e ci godemmo un ottimo antipasto composto da ciccioli di maiale, salatini alla senape e salame, salame affettato, buon vino e pane ferrarese.
Al ritorno dalla Messa, iniziò il pranzo ed assaggiammo l’ottima cucina di Tina; quando arrivammo all’ora del caffé, iniziarono ad arrivare tante persone che avevo salutato a Denore trent’anni prima. All’inizio non fu facile riconoscere persone che io ricordavo col viso di ragazzi, mentre ora erano diventati uomini di una certa età (come me del resto!). Non so descrivere bene quei momenti, ma vi assicuro che ho vissuto quel ritorno con tanta emozione ed anche con qualche lacrima. Dopo questa bella rimpatriata mi sentivo molto soddisfatto: era un sogno che si era realizzato.
E’ stato uno dei giorni più belli della mia vita e di questo devo ringraziare Adler, Franco e le loro famiglie.
Grazie davvero.
Come ho già detto questa amicizia continua, ci sentiamo spesso per telefono, specialmente con Erica; abbiamo una simpatia reciproca anche perché lei è nata il 2 luglio, proprio come me.
Era l’anno 1997, il 2 luglio, io compivo 50 anni, così io e mia moglie decidemmo di fare una bella festa per l’evento. Prendemmo in affitto il teatrino parrocchiale, dove potemmo sistemare i 65 invitati seduti a tavola con un menù molto semplice; Luigi, Paola, Lorenzo (il figlio di Paola e Luigi) e altri amici si prodigarono ad impastare non so quanti chili di crescentine e tigelle, accompagnati da salumi, formaggi, sottoaceti, marmellate e nutella ed molto altro ancora che non ricordo.
C’era anche chi dava un po’ di allegria alla festa con musica e canzoni degli anni ‘60: il musicista era Alessandro (l’antennista che lavorava per me) ed Elisabetta cantava (lei fa la cantante di professione e abita nel nostro Condominio). Oltre ai soliti amici e parenti, con grande piacere c’erano anche quelli di Ferrara, Adler e famiglia, Franco e consorte.
Alla fine del pranzo arrivò un enorme torta di fragole con sopra un bel “50” ; anche di quella non rimase nulla, tranne i miei 50 anni! Fu una bella festa, ci facemmo molte foto e Giovanna ne fece poi un album che conserviamo ancora assieme alle nostre cose più care.
La vita di tutti continuò con la solita voglia di fare, andando tutti i giorni al lavoro .. insomma, il solito tran tran fino a quando, verso la fine del 1997, purtroppo il papà di Giovanna si ammalò.
Aveva un gonfiore sotto un’ascella che pareva una ciste, anzi ne eravamo tutti convinti, perché ne aveva già tolte altre. Invece, fatta l’operazione e l’esame istologico, si scoprì che purtroppo si trattava di tutt’altra cosa. Dopo nove mesi di sofferenze, sue e dei suoi figli, i quali lo assistettero con molto amore e nza mai abbandonarlo un attimo, arrivò il 9 agosto 1998 e lui ci lasciò. Sicuramente per lui fu una liberazione, dobbiamo pensarla così anche se non è una consolazione. A noi invece, me compreso, fu tolto un importante punto di riferimento.
Con me era sempre stato molto rispettoso e soprattutto orgoglioso di sua figlia, per come si era comportata nei miei confronti dopo il mio incidente; a differenza di altri, che davano consigli di tutti i tipi tranne quelli giusti, lui e la sua famiglia non hanno mai messo parola e hanno sempre portato avanti con orgoglio la situazione di Giovanna, aiutandoci sempre nei momenti di bisogno. Ancora oggi io mi sento protetto dal fratelllo e le sorelle di mia moglie.
Quando io e Giovanna comprammo casa con il mutuo, Aristide ne fu molto contento e ci disse “ bravi ragazzi, nonostante tutto siete i primi a comprarvi casa ”.
In quella casa, se pur piccola dentro ma con giardino fuori e delle grandi terrazze, Aristide si era assunto il compito di curare la terra del giardino e di verniciare le ringhiere delle terrazze; arrivava in bicicletta e percorreva, tra andata e ritorno, circa 15 Km.
Pensiamo spesso a lui soprattutto quando ricordiamo quell’alberello di melograno che aveva piantato in giardino, perché a lui piaceva molto; crebbe in fretta ed iniziò anche a dare i suoi frutti, ma quando Aristide si ammalò e smise di venire ad accudire il suo melograno, nonostante le continue cure di Giovanna e Paola, anche a questo alberello venne una protuberanza nel fusto e morì più o meno nello stesso periodo di Aristide.
Ciao Aristide, a me piace pensare che tu sei da qualche parte con il tuo melograno, mi piace pensare che hai incontrato Ersilia, la madre dei tuoi figli, ed anche mio padre Orfeo. Anche lui nella sua breve esistenza ti ha sempre ammirato moltissimo proprio per quel non intercedere mai tra suo figlio e tua figlia, per la quale lui ha sempre avuto una grande ammirazione. Insieme hanno affrontato delle belle avventure, sfidando intemperie di qualsiasi tipo pur di raggiungermi nell’ospedale dove io ero in cura con quella moto Gilera 150 CC che oggi farebbe ridere.
Ricordo anche una sera in cui tu ti eri offerto di assistermi per la notte (e non era certo la prima volta), e mi raccontasti una storiella sul destino delle persone.
Una veggente aveva predetto ad un uomo che sarebbe morto per colpa di un maiale; lui rispose che non sarebbe potuto succedere, perché dal quel momento si sarebbe chiuso in casa e non sarebbe più uscito. Naturalmente fece provviste di pasta, carne, prosciutti e salami che appese alle travi di casa. Ma successe che gli cadde in testa un prosciutto e lui morì, proprio per colpa di un maiale.
Volevi dirmi che ognuno di noi ha il suo destino e dobbiamo accettarlo per quello che è. Ciao Aristide ti abbiamo voluto tanto bene, ci rincontreremo ed io vorrò rivedere il tuo melograno.
Passammo anche questa burrasca, sempre a testa bassa; io e Birba andavamo nel nostro negozio ogni giorno, mentre Giovanna e Paola erano sempre con il piede sul comando della macchina da cucire… ed io vorrei veramente, un giorno, contare quanti su e giù fanno fare all’ago delle loro macchine!
Nel 1999 comprammo un appartamentino al mare a Marina Romea, insieme a Maria, la sorella più piccola di Giovanna, anche grazie all’eredità che Giovanna aveva ricevuto dal padre.
Vi descrivo la “roulotte in muratura”, così come la chiamo io: l’appartamento è di 30 mq ed è molto ben disposto con bagno, una camera letto, una cameretta con letto a castello, la saletta con angolo cottura dove si sta anche in dieci tutti seduti a tavola! Davanti ha un giardinetto pavimentato di circa 15 mq, con posto coperto per le biciclette, posto auto privato vicino all’entrata e naturalmente, essendo una villetta, ha anche l’entrata indipendente! Tutte queste casette formano un blocco unico del residence, che all’interno ha un bel giardino/piazzetta. Quando io esco di casa, prima passo dal mio giardinetto privato, poi mi trovo nel giardino del residence, e dopo circa 5 o 6 metri esco dal cancello condominiale e sono già in strada, per fortuna con poco traffico e quindi non pericolosa.
Marina Romea è ben sistemata, ci sono marciapiedi con scivoli per salire e scendere, così anche per andare in spiaggia.
Giovanna invece gira molto in bicicletta, ci sono molte piste ciclabili ed è stata una bella soddisfazione trovare questo posticino; insomma è veramente tutto perfetto ed io quasi quasi starei sempre là!
Gennaio 2001, mi sembra il giorno 9; era una mattina soleggiata ma fredda.
Io ero al solito posto dietro la scrivania per rispondere e servire i clienti che entravano. In quel momento davanti a me c’era il titolare di Motomania, una officina dove vendono e riparano moto.
Ad un certo punto entrò uno con la sciarpa tirata su fino agli occhi e con in mano una rivoltella, intimandoci che se fossimo stati calmi non ci sarebbe successo niente.
Puntò la pistola alla testa del cliente, si fece dare il portafogli tirandone fuori 170 mila lire, fece stendere il cliente in terra di fianco a me, mi chiese di aprire la cassa e io ovviamente obbedii subito.
Il sangue mi correva dalla testa ai piedi e viceversa. Nella cassa non c’era niente, il ladro allora si arrabbiò e mi chiese dove avevo messo i soldi. Avevo un bel da dire “non ne ho”.. cominciò a toccarmi e cercare il portafogli, sempre con la pistola puntata ma stavolta verso la mia testa. Per fortuna reagii e gli dissi “ Non vedi .. sono le undici, ho aperto solo alle 9,30 .. quello in terra è il primo cliente e i soldi li hai già presi “. Per fortuna si convinse e ci chiuse in bagno, intimandoci di non chiamare nessuno prima di 10 minuti. Chiusi in bagno, sentivamo che in negozio prendeva roba dalle scansie. Caso volle che in quel momento entrò un altro cliente, il titolare del ristorante Gilberto di San Lorenzo in Collina.
Portò in bagno pure lui, prelevò dal suo borsello un milione e ottocentomila lire, con i quali il ristoratore doveva andare a pagare il macellaio. Quando sentimmo silenzio in negozio abbiamo cominciato bussare nel muro oltre il quale c’era la parrucchiera. Lei è corsa da noi e ci ha liberati. In negozio mancavano un videoregistratore, un decoder e trenta mila lire dalla cassa. A rapina finita ho chiamato i carabinieri e il giorno dopo tutto era già tornato normale e noi proseguimmo con il solito tran tran.
Arrivammo al 20 Agosto 2002, il giorno del nostro Venticinquesimo anniversario di matrimonio.. eh già, proprio così!
Torta dei 25 anni di matrimonio
Per quel giorno organizzammo una bella festa: rinnovammo le nostre promesse di matrimonio davanti al Parroco nella Chiesa di Calderino, in un clima di vera emozione, per noi e per tutti gli amici e parenti che ci circondavano. La Chiesa che era stata restaurata da poco con magnifici affreschi, era adornata con i fiori, Giovanna aveva il suo bouquet da sposa ed era splendida.
Per l’occasione le avevo regalato una bella parure con diamante che lei desiderava da tempo, così che pareva ancora più raggiante! Dopo la cerimonia, come in un vero corteo nuziale, ci trasferimmo tutti al ristorante di Tolè, in collina, una località che avevamo scelto anche per l’aria fresca che vi si respirava. Eravamo in una trentina, tra cui non potevano certo mancare gli amici di Ferrara con le loro famiglie.
Il menù prevedeva un ottimo risotto ai funghi, i tortelli specialità della casa, poi carne alla griglia a volontà e per terminare una bellissima e buonissima torta. Il giorno seguente ritornammo al mare per proseguire la nostra estate.
Tornati a casa dal mare eravamo tutti contenti nonostante le ferie fosero finite ma, con i 25 anni di matrimonio così ben festeggiati, cominciò settembre per tutti a quindi tornammo a lavorare anche io e Birba.
A metà ottobre Giovanna notò che il mio ginocchio sinistro sembrava un po’ gonfio. Lo facemmo vedere al dott. Bauleo (il mio medico di base), sempre molto attento ai miei problemi.
Dopo averlo chiamato lui prontamente arrivò e visitando quel gonfiore ammise che c’era un problema. Mi avrebbe mandato al pronto soccorso, ma siccome sapeva che io non ci andavo volentieri, decise di farmi alcune punture di antibiotico.
Fatte le punture purtroppo non cambiò niente, il gonfiore aumentò, quindi mi portarono al pronto soccorso all’ospedale di Bazzano. Diagnosticarono una infezione; siccome a Bazzano non c’è il reparto di ortopedia, mi mandano a Vignola. Arrivati in quell’Ospedale mi visitò un altro ortopedico; anche lui diagnosticò una infezione e che bisognava inciderla subito. Incise ed uscì pus, molto pus. Il dolore calò quasi istantaneamente però così si era creata una “caverna” con ancora molta materia da togliere.
Il medico mi guardò e mi disse: “ Ugolini, lei deve rimanere con noi, cioè ricoverato “.
Io, a sentire che dovevano ricoverarmi, ho reagito con un bel “ Nooo .. “, spiegando al medico i problemi contingenti ad un eventuale mio ricovero: mia moglie doveva stare li con me, loro non erano organizzati per gestire un paziente con le mie problematiche, .. un po’ erano tutte cose vere ma un po’ cercavo anche scuse per non rimanere là. Il dottore disse di aspettare un attimo che avrebbe verificato cosa si poteva fare e dopo circa 10 minuti lo vidi arrivare con un bel sorriso.
Il mio pensiero fu: “ Questo mi frega “, infatti .. “ Ugolini, abbiamo una cameretta dove starete solo lei e sua moglie “. A quel punto non c’erano più scuse.
Mi portarono in reparto, le infermiere erano davvero gentilissime; mi sentivo un privilegiato, nella mia stanza c’erano due lettini, uno per me e l’altro a disposizione di chi stava con me.
Mi sistemarono sul lettino e mi fecero subito una flebo di antibiotici, in attesa dell’esame istologico per sapere che cosa era esattamente quella infezione. Dopo altre flebo e delle pillole, arrivò l’esame l’esito dell’esame. Non era niente di grave, era un virus dal nome “stafilococco aures”, praticamente un terrorista del nostro corpo. La terapia che avevano iniziato era già quella giusta.
La mattina successiva, quando passarono in visita, il medico di turno decise di farmi una pulizia profonda, molto profonda della ferita. Si infilò i guanti, mi prese la ferita tra le mani e me la strinse con forza.
Il pus creato dal terrorista sprizzò fuori velocemente sporcando occhiali, camice e scarpe del dottore, il quale poi medicò il tutto con una garza imbevuta di amuchina. Guardandomi, mi disse che era molto soddisfatto e che il “lavoro” era venuto bene. Io sudavo dal dolore e avevo una gran voglia di piangere, ma stringendo i denti gli ho risposto “ Meno male che è venuto bene, se la pulizia è rapportata al male che ho sentito, sicuramente la ferita è stata pulita bene“.
La ferita, nel ginocchio sinistro, aveva un diametro di circa 7-8 cm ed era molto profonda, si vedeva tutto l’interno del ginocchio..
Io e Giovanna abbiamo passato 15 giorni in quella cameretta di ospedale; durante il giorno venivano Paola o Anna a dare il cambio a Giovanna così lei poteva andare a casa a lavare la biancheria e per quanto possibile non dico riposarsi ma quantomeno per distrarsi un po’.
Durante la degenza, il trattamento è stato esemplare e io mi sono trovato molto bene.
Naturalmente ricevevo molte visite da parte di amici e parenti, alcuni si offrivano anche di stare li con me per far riposare un attimo Giovanna. Me lo chiese anche mio fratello e gli dissi che non c’era bisogno.
Successivamente lui mi disse che c’era rimasto male; forse in certi casi sono un po’ egoista, ma io mi sento a mio agio e in sicurezza solo con Giovanna, quindi qui chiedo scusa a quanti si erano offerti ma spero che capiscano certe situazioni e i miei sentimenti.
Fugati tutti i dubbi che fosse un problema irrisolvibile, finalmente arrivarono le dimissioni con l’invito di andare ogni 7 giorni per i controlli.
Per la medicazione venivano a casa le infermiere, seguite dal dott. Bauleo. L’infezione era sotto controllo, ma la ferita sembrava non chiudersi mai.. oppure era tanto grande che noi non ci rendevamo conto di quanto ci avrebbe messo a rimarginarsi.
Dopo alcune settimane in cui andavamo a Vignola per i controlli e le medicazioni, nemmeno i dottori sapevano più cosa fare. Un medico mi consigliò di andare a Modena da un noto dermatologo, il quale poteva avere strumenti per accelerare la chiusura della mia ferita.
Fortuna volle che, sempre all’ospedale di Vignola, durante una delle solite visite in ambulatorio incontrammo una dottoressa. Quando vide la voragine esclamò “ Mamma mia, cos’è questa roba qua? “. Come sempre c’era Giovanna con me; la dottoressa cominciò a guardare e francamente capivo che anche lei era in difficoltà su come trattare quella ferita. Cominciavo anche a preoccuparmi .. e Giovanna guardandomi lo capiva, cercava di tranquillizzarmi e mi diceva che avevamo passato anche di peggio. Mi faceva una carezza ed io come un bimbo mi mettevo più tranquillo.
La dottoressa Nordi Marcella (questo è il suo nome, la cito perché se lo merita) mi consigliò di fare sedute di camera iperbarica; secondo lei un ambulatorio c’era anche a Bologna e vi anticipo già che questa intuizione fu vincente.
Dopo alcune telefonate, finalmente trovammo questa clinica privata dove c’era anche la camera iperbarica diretta dal dottor Nasole. Giovanna prese appuntamento per una visita. Andammo nel giorno stabilito (cioè il giorno dopo la telefonata: a pagamento si trova sempre posto subito!) e fatta la visita mi prescrissero subito 50 sedute di camera iperbarica.
Detta così sembra tutto facile, in realtà c’erano molte operazioni da compiere sia per spostarmi che per prepararmi alle sedute.
Arrivati a casa gli amici e i fratelli di Giovanna chiesero subito come era andata e in molti si resero disponibili per aiutarci: Gino si rese disponibile anche per tutte le mattine, Giorgio (fratello di Giovanna) idem a patto di saperlo il giorno prima (stava ristrutturando casa). Inoltre: Franco, il mio amico d’infanzia che abita a San Giovanni in Persicelo, si era offerto lui per una settimana al mese o volendo anche di più; addirittura da Ferrara il mio amico Adler, saputo il tutto, anche lui si rese disponibile dicendo che bastava una telefonata e che nel giro di un’ora sarebbe arrivato da me.
Che dire, dopo tutta questa solidarietà e manifestazioni di vera amicizia con loro scherzando dicevo: “ Meno male che mi è venuto lo stafilococco aures, altrimenti non avrei mai saputo di avere dei veri amici come voi “. Gino rispose subito (anche lui non se ne lascia scappare una): “ E’ proprio vero, io ti voglio bene e vengo volentieri ad accompagnarti però il terrorista, come lo chiami tu, è meglio che venga a te piuttosto che a me! “
Ora provo a spiegare in cosa consiste una terapia di camera iperbarica.
Tutte le mattine si partiva alle 9,30 per essere sul posto alle 10; mi medicavano poi la camera iperbarica vera e propria consisteva in un cilindro metallico con un diametro interno di circa 1,90/2 metri e lunga 3 metri circa. Lì dentro ci si stava in massimo 12, seduti in appositi seggiolini, a meno che non ci fossero persone in carrozzina o su una barella; in quel caso c’era meno spazio e biondi ci stavano meno persone.
Una volta dentro eravamo sempre in 6/8 persone, ci accompagnava un medico specializzato in questa terapia e da fuori un altro tecnico manovrava il sistema, mettendo o togliendo aria per arrivare ad una pressione giusta, come se fossimo a 15 metri sott’acqua.
Arrivati a questo punto dovevamo metterci una mascherina che copriva bocca e naso, da lì si respirava ossigeno quasi puro e così, respirando quella miscela di ossigeno a quella profondità, il terrorista e i suoi soldati venivano soprafatti dagli anticorpi, che grazie a quel sistema il nostro corpo riusciva a riprodurre molto più in fretta del normale.
Per 50 mattine io, Giovanna e l’aiutante di turno abbiamo fatto questo tour-de-force.
La ferita era supervisionata dalla dott. Nordi, la quale ogni volta che la carne cresceva (e cresceva molto bene!) con i suoi bisturi, forbici, aghi e filo mi “cuciva” per dare un ulteriore aiuto a rimarginare il “cratere”.
Finite le prime 50 sedute sembrava tutto a posto, ma non era finita lì: bisognava continuare. Il dott. Nasole d’accordo con il dott. Di Donato decisero di farmi fare ancora 30 sedute, anche perché sembrava proprio che la terapia funzionasse.
Cominciammo un altro ciclo di 30 giorni; a dirlo sembra facile, ma sia da parte di mia moglie (che non è mancata neanche una mattina) sia da parte degli “autisti-aiutanti” è stata dura. Ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti “ Ci tocca.. “, ma io stesso non ne avevo proprio voglia.
Poi per forza di cose la voglia ce l’abbiamo dovuta mettere; io nella solita ora e mezza dentro al cilindro e loro fuori ad aspettare. Ogni tanto i miei accompagnatori andavano a fare un giro al mercato li vicino e così Giovanna faceva la spesa per lei e molte volte anche per le infermiere.
Naturalmente anche durante queste ulteriori 30 sedute la dott. Nordi supervisionò sempre la ferita. Con le sue “cuciture” mi sembrava di sentire parlare una sarta; diceva “ Tiriamo su di qua, tagliamo di là “ e mia moglie, che fa davvero lavori di sartoria, diceva pure lei la sua. In quei momenti di sutura loro due erano complici, ma io? Nonostante le punture di anestetico e le carezze per farmi stare tranquillo (e lo ero abbastanza) pativo davvero molto male.
Per sdrammatizzare un po’ quei momenti avevo iniziato a dire che una volta guarito avrei offerto una cena a tutti: infermieri, dottori, tecnici iperbarici, autisti e tutti gli altri che comunque mi giravano intorno. Per esempio la moglie di Gino, che si chiama Pina, ogni tanto alle ore 13 quando rientravamo ci faceva trovare la minestra di fagioli. Con la scusa che ero un po’ depresso me ne facevo delle belle scorpacciate! Anche Nadia, cognata di Giovanna, quando di turno c’era suo marito Giorgio preparava cipolla, tonno e fagioli. Che bei momenti e che mangiate (sapete, ero depresso..) e quelle cose mi davano felicità. Voi direte “ Sei proprio scemo..!” .. ma non è vero, era proprio così che mi sentivo.
Gli infermieri e i medici, vedendo che tutto andava per il meglio, mi ricordavano continuamente della mia promessa e mi dicevano: “ Davvero andiamo a fare una mangiata? “
Io rispondevo di sì e loro ribattevano “ Ma tanto dicono tutti così poi non lo fa nessuno! “
Finalmente finì anche questo ciclo di terapie ed ebbi una guarigione perfetta. Il ginocchio si è chiuso perfettamente; hanno lavorato tutti benissimo, anche la chirurga-sarta: le sue cuciture hanno sempre tenuto.
La cena poi la organizzai veramente, eravamo in 28 e fu una gran bella serata. E che dire, è stata una bella avventura, grazie a tutti: a mia moglie che ormai era diventata espertissima nelle fasciature, alle infermiere domiciliari (per la privacy non facio nomi, Marcella e Lea), bravissime (loro insegnavano a mia moglie cosa e come quando non venivano) e con le quali abbiamo instaurato un rapporto di amicizia, a tutti gli autisti-accompagnatori ..
Poi basta altrimenti non finisco più. Grazie a tutti!
Nell’estate del 2007 ci siamo goduti anche la compagnia di Luca con la sua mamma; ma adesso voi direte: chi è Luca? Ebbene il piccolo è figlio di Lorenzo e Stefania, nipote di Paola e Luigi, il figlioccio mio e Giovanna, nato il 18 gennaio 2007. Sicuramente quando leggerete queste righe, lui sarà già grandicello!
Nell’estate del 2007, mentre era con noi al mare, aveva 6-7 mesi e vi posso garantire che era un mare di simpatia, con i suoi gorgheggi, le risate e con tutti i suoi movimenti velocissimi di braccia e gambe stando sulla sdraietta.
Vi assicuro che quando è tornato a casa mi è mancato molto, mi hanno portato via una bel “giochino”, ma vista l’esperienza positiva del mare, anche Lorenzo e Stefania hanno deciso di acquistare un appartamento a Marina Romea così nei prossimi anni ci faranno sempre compagnia!
Agosto 2007 Marina Romea – ecco il mitico Luca, qui ha 6 mesi
A questo punto facciamo un passo indietro nel tempo…
Il 30 giugno 2006 decisi di chiudere il mio negozio: fu una decisione molto sofferta, era la principale occupazione delle mie giornate che così passavano velocemente; ero a contatto con clienti e, tramite la mia organizzazione con artigiani, antennisti e riparatori tv, ero molto impegnato.
Rispondevo ai bisogni della clientela, preparavo preventivi dopo il sopralluogo dell’antennista se c’era da installare un’antenna condominiale o privata, o altro se il lavoro era di diversa natura. Continuavo a commercializzare gli apparati CB ed accessori, sia al dettaglio sia ad aree di servizio in autostrada ed officine di elettrauto. Purtroppo i costi di gestione per rimanere aperti aumentavano ed il lavoro di anno in anno diminuiva, così come le mie forze.
Giovanna per 26 anni mi ha accompagnato ogni mattina ed ogni sera, non abbandonando mai il suo lavoro (fortunatamente ha sempre lavorato, perchè i soldi non bastano mai!), ma ormai capivo che era ora di tirare giù la serranda e così ho fatto.
Il caso ha voluto che Vittorio, mio ex socio dopo l’apertura fatta da lui 26 anni prima, fosse lì anche la sera dell’ultima chiusura. La feci fare a lui e così il cerchio si è chiuso.
Ora faccio il pensionato, me la cavo benissimo ugualmente un po’, anzi un bel po’ al PC dal quale scarico canzoni e film, le canzoni (naturalmente rigorosamente anni ’60!) e le ascolto tutto il giorno mentre “slambicco” e pigio i tasti della tastiera, che a sera mi dice “per favore basta, lasciami in pace!”. I film sono per lo più western e me li tengo per le brutte e corte giornate invernali, inoltre tengo contatti via e-mail o chat con amici e così il tempo passa.
Sicuramente qualcuno molto attento alla lettura si chiederà: ma Birba che fine ha fatto?
Birba era sempre in negozio con me e purtroppo ogni tanto vedevo che nel tornare a casa (lei mi precedeva, tanto la strada la conosceva bene) aveva dei mancamenti alle gambe posteriori e quando aveva questi dolori si fermava poi mi guardava come a dire “ Mi fanno male le gambe, ma non ti lascio andare via da solo” e ripartiva trotterellando come solito.
La cosa mi faceva stare male; voi direte “ Forse ti preoccupavi ”..
No, no stavo proprio male al pensiero che Birba avesse dei problemi; ne parlai con Giovanna, la facemmo vedere alla veterinaria e disse che purtroppo era la vecchiaia, aveva all’epoca già 14 anni.
Dopo la chiusura del negozio lei tutti i giorni all’ora della partenza mi guardava come a dire “ Oggi non si va ?” Io le raccontavo che il negozio non c’era più, così lei tornava sul suo lettino come avesse capito quello che io gli avevo detto.
Venne Agosto, ci preparammo per andare tutti al mare ed alla partenza lei si mise come al solito nel posto del passeggero, là davanti a dove si mettono i piedi; per tutto il viaggio rimase lì, si muoveva solo quando arrivavamo sul posto e aprivamo lo sportello dalla sua parte, così scendeva e andava dritta davanti al cancellino, per entrare in giardino. Pensate che di quei cancelli ce ne sono una quarantina tutti uguali, ma lei non si sbagliava mai.
Una volta aperto il cancello e la porta di casa lei era impaziente, voleva entrare per andare sul suo lettino e se non era al suo posto faceva dei saltelli, ma non da me perché lei sapeva benissimo che non la potevo aiutare, ma andava dritta dritta da Giovanna.
Una volta che era al suo posto non la si sentiva più, a patto che qualcuno fosse sempre lì con lei.
Io non avrei mai pensato che per rimanere a fare compagnia al proprio cane si facessero rinunce tipo niente ristoranti, niente spiaggia ecc. Chi non ha animali non può capire, ma erano sacrifici che si facevano volentieri ed eravamo contenti a vedere lei contenta. Giovanna ed io ci guardavamo ed eravamo d’accordo che per la nostra cagnolina, per farla stare bene, avremmo fatto di tutto.
BIRBA la mia cagnetta abbiamo passato insieme 14 anni bellissimi 1992/2006
Verso metà Agosto il problema delle gambe posteriori di Birba incominciò ad accentuarsi; di giorno in giorno peggiorava ed io davvero facevo fatica a guardarla, andavo in giro per il giardino e solo al pensiero che potesse venire a mancarci mi scendevano dei lacrimoni che non riuscivo a trattenere. Giovanna la portò dal veterinario, le fecero una bella visita, comprese le lastre, ma purtroppo il responso fu che aveva dei problemi al fegato ed ai reni e aveva solo pochi giorni di vita. Fu un grande dolore, ci rimasero malissimo anche le persone del residence che con noi avevano un ottimo rapporto e naturalmente anche Birba era benvista.
La notte tra il 20 e il 21 Agosto Birba stette male, non si alzava più dal suo lettino, Giovanna rimase tutta notte seduta in terra tenendole la testa tra le mani, non poteva toglierle perché lei ci guardava e con gli occhi ci diceva “stai qua non te ne andare”.
La mattina del 21 Agosto abbiamo telefonato a Paola raccontandole dei problemi sopraggiunti, lei partì subito e venne da noi. Giovanna rimase sempre vicina a Birba e le diceva che sarebbe arrivata Paola e Birba a quelle parole raddrizzava le orecchie, perché le era molto affezionata come Paola lo era a lei. Paola arrivò intorno alle 13 e si mise vicina alla cagnetta, tenendole la testina sempre tra le mani; purtroppo dieci minuti dopo spirò.
Abbiamo passato 14 anni con questa cagnetta, anni bellissimi e sentiamo moltissimo la sua mancanza; quando parliamo di lei ci emozioniamo ancora, specialmente Giovanna.
Ecco, sono arrivato alla fine del mio racconto: sono passati circa 60 anni dalla mia nascita, dei quali 41 dopo l’incidente e che dire di tutto questo tempo?
A volte mi chiedo se è proprio vero che io non ho camminato per 41 anni... leggendo queste pagine sembra proprio di no.
Io sono stato preso per mano da mia moglie, ho scalato montagne, guadato fiumi, attraversato pianure, solcati mari, ho lavorato, abbiamo avuto aiuto, specialmente dai fratelli di mia moglie ed amici molto speciali. Anche se non faccio nomi, loro lo sanno chi sono; a tutti loro è dovuto un abbraccio e un grazie, un profondo grazie.
A mia moglie non posso dire “grazie” o per lo meno un solo “grazie”, perché sarebbe troppo riduttivo.
Mi piacerebbe trovare parole mie per dirle quello che sento dentro, come quando eravamo ragazzi mentre la guardavo e le dicevo com’era bella e nel dire quelle parole mi emozionavo. Anche dopo 41 anni insieme, di cui 30 da sposati, lei è sempre stata presente, non mi ha mai fatto mancare niente ed è sempre stata onesta. Molte volte, quando ha bisogno di qualcosa per lei, esce per fare compere, ma quando rientra, invece di cose per lei, ha una maglia o altro per me. Ancora oggi, quando la guardo e le dico “come sei bella”, ho la stessa emozione di allora.
In questo mio racconto non ho mai parlato di religione; noi siamo credenti, abbiamo un buon rapporto con Don Marino, il parroco di Calderino. Ma non frequentiamo molto la parrocchia, viviamo molto nel nostro quotidiano, nella nostra intimità, quando possiamo ci piace stare soli. Noi non abbiamo mai invidiato nessuno e siamo sempre stati contenti di quello che ci siamo costruiti con le nostre forze, forse con l’aiuto del Signore.
Giovanna, non trovo parole per ringraziarti per quanto hai sempre fatto per me in questi anni.
Io ti ho amata ogni giorno della nostra vita insieme, con te ho camminato tanto e speriamo di camminare ancora molto e molto insieme.
E allora? Te lo scrivo ancora più in grande…
Grazie, amore mio!
Franco
Dall’inizio ad oggi ne è passato di tempo ..
noi oggi siamo questi …
(Dicembre 2006)
… E questi …
(Settembre 2008)
Ringraziamenti
Un ringraziamento speciale a Erica e Stefania, che mi hanno aiutato tanto sia nella stesura che nella impostazione grafica di questo mio racconto.
Grazie ragazze.
Se salta fuori qualche errore su questo racconto, la colpa non è mia, è solo vostra!
Erica , Stefania e Luca
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